"Andromeda", la fredda vendetta di Gianluca Morozzi in un libro

Cultura

BOLOGNA. Tra thriller e noir psicologico, “Andromeda”, l’ultimo libro di Gianluca Morozzi edito da Giulio Perrone, è la storia di una vendetta lenta, fredda e terrificante, nella Bologna “bene” tra gli anni Ottanta e Novanta. La produzione di Morozzi, che oltre a essere scrittore affermato, è anche fumettista, musicista e conduttore radiofonico, è vasta e varia: trentaquattro romanzi che spaziano dal comico all’ultra noir.
Morozzi, come è nato questo romanzo?
«“Andromeda” nasce dalla copertina di un fumetto degli X Men, dove il personaggio di Wolverine è crocefisso a una croce a forma di X, un’immagine molto forte, da lì l’idea dell’incipit».
Quella croce si trova sulla copertina di “Andromeda”, rossa su sfondo nero. Nelle prime pagine si incontra un personaggio appeso a una croce senza sapere il perché. Di fronte a lui, il protagonista e voce narrante della storia, che lo terrorizza ricordandogli che lo ucciderà.
«Mi piaceva molto l’idea di una vendetta lungamente meditata da un personaggio nei confronti di un altro, il quale a sua volta sa di meritarsi una punizione, e quando viene messo di fronte alla possibilità di salvarsi dicendo solo un nome, quel nome non se lo ricorda. Un mix di un’immagine madre fumettistica e un concetto di antica vendetta».
Perché il titolo “Andromeda”?
«Ci sono molte cose che il lettore capirà solo alla fine, una delle quali per esempio è chi è Dimitri, il personaggio legato alla croce, la cui storia verrà detta soltanto verso le ultime pagine. “Andromeda” è un nome legato a un antico mito, si parla di una figlia, Andromeda, che viene condannata a una morte orribile per la vanità della madre che indispettisce gli dei».
Andromeda subisce la vendetta divina, il mito racconta che viene incatenata a una roccia per scontare le colpe di sua madre Cassiopea.
«La madre del protagonista del mio romanzo è dannosa fin dalle prime pagine, il protagonista dice che soffre di una “stupidità sostanziale”. Si vedrà quanto pericolosa possa essere».
In “Andromeda” emerge un rapporto tra alcuni modelli letterari in contrasto con gli interessi del protagonista, che da adolescente ripudia i libri di famiglia, i classici come Verga o Stendhal.
«Il padre gli dà effettivamente degli ottimi libri, ma si tratta del classico suggerimento di libri scolastici, di qualcuno che in realtà non legge nulla nella sua vita. Sono libri imposti in modo sterile, non pensato. Verga, Stendhal, sono capolavori assoluti, ma imposti diventano insopportabili».
Non solo libri: in “Andromeda” c’è anche tanto cinema, musica, fumetti…
«Se ne parla soprattutto quando compare la ragazza che farà scoppiare la miccia che porterà alla vendetta, appassionata di cinema e di musica. Negli anni Ottanta la musica, diciamo, si subiva. Lei invece cerca le sue canzoni, gruppi di nicchia poco conosciuti. I fumetti invece vengono citati qua e là nel romanzo, ma i riferimenti ad Andrea Pazienza a un certo punto emergeranno prepotentemente».
Nel romanzo lei fa un ritratto puntuale di Bologna a metà degli anni Ottanta, perché proprio la sua città come sfondo per “Andromeda”?
«L’uomo che ha legato Dimitri alla croce gli racconta una lunga storia, una storia di ragazzini di famiglie ricche, benpensanti, di scuole private cattoliche, altolocate, che vivono in centro. Penso che Bologna sia una città molto duttile, si presta bene a qualunque tipo di narrazione, che sia drammatica, umoristica, fantasiosa… In questo Andrea Pazienza è un modello. Tra l’altro, io parlo di una Bologna “bene” che non conosco, perché io vivevo in un quartiere molto popolare, in periferia, e le figure che descrivo in “Andromeda” le immaginavo soltanto, quando andavo in centro e guardavo un certo tipo di ragazzi. E mi servivano proprio quelli. Poi ovviamente ho fatto delle ricerche, perché non conoscevo tutte le loro dinamiche».
Cosa lascia “Andromeda” al lettore?
«“Andromeda” non è un romanzo consolatorio, è un romanzo terrificante. Io sono nato in un periodo in cui crescere significava convivere con la diffusione dell’Aids. Negli anni della mia pubertà si diffondeva una malattia legata al sesso. La cosa terribile che scoprivi quando Freddie Mercury o tutti gli altri erano malati e poi ti lasciavano, è che la malattia risaliva a qualcosa che avevi fatto con leggerezza molto tempo prima, e ti capita dopo anni. Gli spot per prevenire l’Aids erano inquietanti, dicevano sostanzialmente di fare astinenza, così come adesso è inquietante sentire che non bisogna toccare nessuno. Hai fatto qualcosa da giovane, distrattamente, con molta leggerezza, che hai completamente dimenticato… Ora ti arriverà invece una punizione pesantissima, cento volte peggio di quanto potevi immaginarla. È proprio questo il tipo di meccanismo che innesca la vendetta di “Andromeda”».

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