Cronaca riminese, i professionisti del borseggio sul tram elettrico

Cultura

Le merci scarseggiano, i prezzi lievitano, i salari e gli stipendi stentano ad adeguarsi all’aumento incalzante del costo della vita. Non c’è lavoro e cresce la disoccupazione. Scioperi, tafferugli, violenze d’ogni genere. Un quadro politico e socio-economico veramente esplosivo quello dell’immediato primo dopoguerra. A Rimini, tanto per avere un’idea, negli anni 1919 e 1920 salgono alle stelle i prezzi delle uova, della carne e del vino; il sale è introvabile; scarseggia lo zucchero; il latte è annacquato e il pesce costa «un occhio della testa». Una baraonda, insomma, che apre le porte ai disonesti e alla delinquenza comune. Le ruberie crescono con un ritmo tanto vertiginoso che L’Ausa, settimanale cattolico, ritiene opportuno inserire tra le sue colonne una rubrica dedicata ai «Furti». A leggere settimanalmente quella cronaca c’è da restare sconcertati. Si ruba di tutto e a qualsiasi ora della giornata, dalle galline ai buoi, dalle damigiane di vino alle biciclette, dalla biancheria intima stesa ad asciugare al sole ai gioielli nascosti nei cassetti.
Ladri! Ladri! Ladri!
D’estate la situazione peggiora. Germinal, periodico socialista, il 31 luglio 1920 titola un trafiletto con queste tre parole: «Ladri! Ladri! Ladri!» e spiega che «illustri lavoratori del grimaldello sono venuti a Rimini a fare la loro stagione balneare». Proprio così! La spiaggia è diventata l’eldorado della malavita e l’attività del ladruncolo un mestiere come tanti e per di più senza alcun pericolo, perché le forze dell’ordine, impegnate a tenere sotto controllo la situazione politica, non hanno tempo, mezzi e uomini per stare dietro ai «furtarelli».

Tanto disordine economico e sociale, tuttavia, non frena il progresso. Sabato 2 luglio 1921 è inaugurata la tranvia elettrica: cinque chilometri di linea da piazza Cavour allo «scambio Rastelli» (si trovava nei pressi dell’incrocio tra i viali Regina Elena e Giovanni Pascoli). Sostituisce l’indecoroso e antiquato tram a cavalli, che per oltre quarant’anni, nella stagione dei bagni, ha collegato la città con la marina. L’evento è una tappa significativa nella storia dei trasporti pubblici, ma anche l’inizio di nuove e imprevedibili sorprese. Sull’esempio di altre città più grandi e affollate cominciano ad arrivare a Rimini, attirati dalla moderna tranvia, i «professionisti del borseggio», i «manolesta del contatto ravvicinato», una categoria di lestofanti ancora poco nota, ma in forte crescita. E una piacevole corsa in vettura diventa subito un rischio. Non a caso, a pochi giorni dall’inizio del servizio tranviario elettrico, i casi di borseggio denunciati al commissariato formano già un voluminoso dossier. A nulla valgono le proteste dei malcapitati: tutto fiato sprecato. I marioli, che spesso si celano dietro le sembianze di distinti e insospettabili bagnanti, non lasciano traccia. Quando se ne acciuffa uno è festa grossa. Interviene la stampa e il protagonista della cattura è additato alla comunità quale esempio di eroico civismo. Ne è la prova Giuseppe De Terlizzi, 31 anni, «caffettiere» di un bar sul corso Umberto I (oggi Giovanni XXIII) che riesce ad assicurare alla giustizia il primo «borsaiolo tranviario» dopo averlo inseguito e agguantato.
De Terlizzi blocca il manolesta
L’episodio accade il 30 luglio 1921 verso le 18 e 15. All’interno di una vettura che procede lungo la via Gambalunga in direzione mare «un figuro non indigeno» – così descrive il malandrino La Riscossa, settimanale repubblicano, il 6 agosto 1921 – riesce ad «introdurre la sua abile mano nella tasca» del cameriere Alfredo Gambuti «per appropriarsi indebitamente del suo portafogli». Compiuta l’operazione lo scippatore scende in fretta e furia alla fermata del Politeama. Il Gambuti, accortosi nel frattempo dell’“alleggerimento”, comincia a urlare «Al ladro! Al ladro!». Per strada c’è il vigile urbano Enrico Muccioli che risponde alle grida lanciandosi all’inseguimento. Il «figuro», però, è imprendibile. In via dei Mille la guardia municipale ha il fiatone e rinuncia. De Terlizzi, che si trova nei pressi, vede la scena, comprende al volo il da farsi e senza indugio si getta nella corsa: duecento metri e il ladro, ormai esausto, è bloccato. Al “Serpico” improvvisato vanno gli onori della cronaca e il plauso della cittadinanza.

Con l’arresto del ladruncolo, il “pezzo” sui «manolesta del contatto ravvicinato» si conclude. Quanto segue si riferisce ad un altro fatterello di cronaca, avvenuto nove anni prima. Lo recuperiamo perché ha per protagonista il nostro “caffettiere” ed anche perché l’episodio è veramente singolare. Giuseppe De Terlizzi – leggiamo su La Riscossa del 5 ottobre 1912 – non riuscendo a chiudere il bar a fine giornata, per la presenza nel locale di due inamovibili ubriachi, chiede aiuto al commissariato di polizia. I questurini, chiamati a risolvere l’impiccio, «dopo essersi dimostrati incapaci di fare uscire dal caffè gli avvinazzati, coi quali avevano intavolato una rumorosa conversazione», anziché prendere nei loro confronti seri provvedimenti infliggono al conduttore dell’esercizio una sonora contravvenzione per «inosservanza d’orario». Sulla stramba conclusione della vicenda, La Riscossa rovescia tutto il suo biasimo sui questurini.

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