Crisafulli e la sua fuga dall'Ucraina, oggi a Santarcangelo

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«24 febbraio 2022, un dì maledetto che non scorderò mai neppure se mi verrà l’Alzheimer (…) non potrei scacciare quella data calamitosa, vespa impazzita nelle mie orecchie». Lo scrive a metà del suo libro, “33 ore. Diario di viaggio dall’Ucraina in guerra” (Vallecchi, 2022), il riminese Edoardo Crisafulli, diplomatico, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Kiev, protagonista stasera (ore 21) alla biblioteca Baldini, in dialogo con Paolo Boldrini direttore del Corriere Romagna.

Quel giorno di febbraio ha avuto inizio la fuga in auto verso la Moldavia, partenza da Kiev, capitale dell’Ucraina sotto attacco russo con missili e bombe. 33 rocambolesche ore, come recita il titolo, senza tregua e tra mille impedimenti che gli hanno offerto il pretesto per un racconto a metà tra narrazione e saggio, in cui esperienze e riflessioni personali si intrecciano a cronaca, storia, letteratura, filosofia, con uno stile originale e creativo che conquista e un interessante corredo fotografico. A Crisafulli, (che abbiamo raggiunto telefonicamente in Ucraina) abbiamo chiesto di parlare del libro, dell’Ucraina, della guerra e della cultura della pace.

Nelò libro lei ha inserito due poesie, una inedita è di Lina Kostenko in cui rimbalzano le parole libertà e anima. Sono indicative per comprendere l’odio atavico e profondo tra ucraini e russi?

«La lotta per la libertà caratterizza la storia ucraina dal 1600 così come quella per l’identità – e l’anima è l’identità culturale di un popolo. Per l’Ucraina è un problema antico e il suo popolo ha sempre condotto una lotta duplice: indipendenza e identità culturale».

Perché ha sentito la necessità di scrivere del suo viaggio-fuga in seguito all’attacco russo?

«Ho voluto scriverlo per diverse ragioni. Per raccontare la mia esperienza di vita qui, per l’indignazione di quanto accaduto e perché ho capito la radicalità del conflitto. Questo è un paese che ha conquistato la libertà con fatica, continuamente minato nell’identità. E tutto ciò ha fatto emergere la mia storia familiare, il mio vissuto, il mio sentire di tradizione socialista che potrei definire di sinistra pasoliniana».

Che carattere ha impresso al suo testo e qual è il messaggio?

«Il libro non va visto come un saggio puramente politico, lo è solo in senso lato. Adotta la narrazione proprio per questo, perché trascende la politica in senso stretto e contiene elementi letterari, filosofici, storici. Il messaggio è quello di guardare la nostra storia».

Lei ora è a Leopoli perché l’Istituto di Cultura vi è stato momentaneamente trasferito. Nella sua carriera ha ricoperto il ruolo diplomatico in luoghi conflittualmente tra i più caldi del mondo: Haifa, Damasco, Beirut. Una scelta precisa

«Certo, li ho scelti ed ero consapevole dei rischi mentre non lo ero per quanto riguarda Kiev ma non lo era nessuno. Nessuno aveva una ipotesi precisa di ciò che è accaduto, perché nulla faceva pensare a una guerra a tutto campo».

Invece c’è stato l’attacco russo a sorpresa, poi la fuga che lei racconta e ora la convivenza con la guerra. Teme un’escalation o vede lo spiraglio dei negoziati?

«Non posso fare previsioni, solo auspici. Credo che debbano avvenire dei cambiamenti profondi nel sistema politico russo che lo portino ad avvicinarsi alla democrazia e al liberalismo. Per quanto riguarda l’Ucraina è un ponte fra Europa e Russia. Ed è importante tenere presente che i regimi vanno e vengono mentre il popolo rimane».

La guerra porta con sé morte e distruzione e anche negazione della cultura dell’avversario. Lei che è un esperto in questo senso, può dire quanto è importante la diplomazia culturale?

«Lo è sempre stata e lo sarà sempre più. Io ho lavorato in questo senso, questa è la mia posizione ma è anche quella del Ministero degli Esteri italiano che ha una vocazione alla pace e al dialogo, incline alle relazioni e alla cooperazione. E questa è la cifra dell’Italia che ha storicamente un ruolo importante nella costruzione di ponti per il dialogo, nella diplomazia culturale, basta guardare la nostra storia, eccezion fatta per le pagine di vergogna del fascismo e del colonialismo. Ma è stata una parentesi, pensiamo alle Repubbliche marinare e alle loro relazioni col mondo, e ancora al ruolo dei francescani in Terra Santa e potrei citare Dante che era un militante ma operava all’insegna del dialogo, del rispetto e Federico II che rappresentava un’entità politica fondata sul dialogo interreligioso e interculturale».

Lei sostiene che anche l’Occidente ha prodotto fanatismi e fondamentalismi ma bisogna far emergere la nostra anima più incline al dialogo e non disumanizzare, perché si può avere un avversario ma non un nemico.

«È l’idea stessa del nemico che è da respingere. La contaminazione va vista in chiave positiva, e la cultura è contaminazione tra realtà diverse. Oggi la sfida è quella di riuscire a lavorare in una situazione di conflitto, cercando di usare la cultura come strumento di pacificazione».

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