Cotignola, si ammalò per il mobbing. Chiesti 4 mesi al manager

Lugo

Stressata dal lavoro, al punto da ammalarsi e non riuscire a svolgere nessuna occupazione per quasi un anno. Molto più di una semplice antipatia quella lamentata da una dipendente del “Maria Cecilia Hospital” di Cotignola. Piuttosto un clima lavorativo teso al punto da farla ammalare di “disturbo dell’adattamento”. Per quella patologia, riconosciuta come malattia professionale nel 2016, è finito a processo il presidente della struttura sanitaria, accusato di non avere valutato correttamente il rischio di stress lavoro correlato. E ieri, alle battute finali del processo davanti al giudice monocratico Tommaso Paone, il sostituto procuratore Monica Gargiulo ha chiesto la condanna a 4 mesi.

Le accuse

I problemi – secondo l’accusa – erano iniziati fin dal febbraio 2014, con i sintomi che nell’agosto di due anni più tardi sarebbero confluiti in una diagnosi psicologica ben precisa, elaborata dal centro di neuropsicologia professionale di Milano: “Disturbi emotivi misti quale reazione a stress lavorativo, anamnesticamente correlato alla persistenza di un clima interpersonale vincolante, penalizzante, critico, ipercontrollante e mai collaborativo, il tutto esitato in netto svilimento del ruolo e delle competenze acquisite e in assenza di supporto sociale”. Problemi di salute che la dipendente (assistita dall’avvocato Alessandra Cavina) imputava all’egemonia esercitata dalla superiore, fra scarsa considerazione ed emarginazione.

Ma non è alla dirigente che la Procura ha indirizzato le accuse. Piuttosto, secondo il capo d’imputazione, i vertici della società “Maria Cecilia Hospital” avrebbero dovuto adeguarsi alle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. In particolare, i due documenti sulla valutazione del rischio, sarebbero stati compilati senza consultare i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, e nemmeno i dipendenti stessi, così come anche le segnalazioni del personale sarebbero cadute nel vuoto.

La difesa

Gli avvocati difensori Giovanni Scudellari e Lorenzo Marangoni hanno sostenuto in primo luogo come all’epoca dei fatti l’imputato non fosse amministratore della struttura. Inoltre, il documento di valutazione dei rischi era strutturato in modo corretto, con tanto di corsi organizzati per migliorare le condizioni di lavoro. Inoltre, secondo i legali, le condotte lamentate dalla dipendente come vessatorie erano in realtà ascrivibili entro la normale dialettica tra superiore e dipendente. Infine, i legali hanno rimarcato che i pareri medici che hanno diagnosticato la malattia professionale non avrebbero preso in considerazione gli elementi di stress all’interno del contesto familiare della donna, che invece avevano portato l’Inail a escludere il collegamento tra patologia e luogo di lavoro. FED.S.

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