Coronavirus, grave ad Abu Dhabi: ora è guarito e tornato a Cesena

CESENA. C’è un cesenate che la battaglia contro il coronavirus l’ha combattuta e vinta a migliaia di chilometri da casa, dentro un ospedale ad Abu Dhabi. E ieri ha potuto festeggiare il suo 38° compleanno, dopo essere appena rientrato nella propria abitazione in centro, al termine di 18 giorni di isolamento in un ospedale della penisola arabica.
Si chiama Dario Marini ed è un fisioterapista e osteopata. Lavora in un centro medico a Montaletto di Cervia, ma da 3 anni è anche al servizio del team ciclistico professionistico “Uae Emirates” e la brutta esperienza a lieto fine l’ha vissuta proprio nel contesto di una corsa a tappe negli Emirati Arabi Uniti. Un competizione sportiva iniziata il 23 febbraio e terminata in anticipo, proprio a causa dei contagi da Covid-19, due giorni prima dell’ultima tappa, programmata per il 29.
È stata grande la gioia quando ha potuto riabbracciare sua moglie Letizia, dopo un rimpatrio difficile ancora a causa della pandemia, prima per i voli limitati e poi, dopo l’atterraggio a Zurigo, per gli ostacoli dovuti alle restrizioni negli spostamenti.
Non è ancora del tutto finita, perché dovrà restare in quarantena a casa fino al 3 aprile. Però l’incubo si è dissolto e la voglia di ripartire e cercare di rendere utile il suo caso è tanta. «Appena potrò uscire - racconta Dario Marini - la prima cosa che farò sarà andare a donare il plasma, perché i medici mi hanno detto che potrebbe essere d’aiuto ad altri, avendo io sviluppato anticorpi al coronavirus». Poi ci sarà da riprendere «10 chili persi» durante la degenza e da «liberare la testa, perché ancora fatico a ragionare come prima. È un po’ come se una parte fosse rimasta là, in quell’ospedale, resta la paura e sono sempre dietro a disinfettare tutto». Ma soprattutto al 38enne guarito sta a cuore diffondere un messaggio: «Il coronavirus può colpire duro anche se si è giovani, sani e sportivi come me. Spero che la mia storia trasmetta forza a chi si è visto crollare il mondo addosso. Ma deve anche fare capire a tutti che il pericolo non va sottovalutato, bisogna restare tutti a casa».
I ricordi della malattia sono vividi. «Il 19 febbraio sono arrivato ad Abu Dhabi assieme al team - ricorda Marini - e ci siamo sistemati in un elegante hotel. Ma dopo qualche giorno un mio collega milanese ha iniziato a stare male e sono iniziati i contagi, che alla fine hanno colpito 8 ciclisti e altri membri dello staff della nostra squadra. Sono stati messi i sigilli all’albergo e a tutti noi turisti all’interno è stato fatto il tampone. Inizialmente era parso negativo e invece il 29 febbraio il medico del nostro team ha detto a me e al mio compagno di stanza di prepararci, perché nel giro di mezz’ora sarebbe arrivata un’ambulanza e ci avrebbe portato in ospedale. E così è stato».
Il ricovero è stato in una clinica di qualità, il “Cleveland Hospital”, e di questo Marini ringrazia il team “Uae Emirates”, che lo ha messo nelle condizioni migliori per curarsi. In particolare, è molto grato alla virologa colombiana Fernanda Bonilla, che vive e lavora là «ha salvato me e altri».
Il cammino è stato però in salita. «All’inizio avevo 37 e mezzo di febbre - riferisce il giovane - ma dopo tre giorni è aumentata, fino a salire a 39,8 e il focolaio si è diffuso in entrambi i miei polmoni. Sono finito in Terapia intensiva, dove sono rimasto 8 giorni, e mentre mi stavano per intubare un medico italiano ha deciso di aspettare un’altra notte e un lieve miglioramento non lo ha reso necessario. Mi hanno dato medicine di tutti i tipi, da quelle anti Hiv a quelle contro l’Ebola, da antibiotici ad antivirali, fino ad antiartritici, perché essendo una malattia nuova, si prova un po’ di tutto. Prendevo quattro volte al giorno antibiotici e antivirali e fino ad altre quattro volte paracetamolo per abbassare la febbre. Mi veniva fatto il tampone ogni 24 ore e dopo 12 giorni è arrivato il primo negativo, a cui ne sono poi seguiti un secondo e un terzo che hanno confermato che il virus non c’era più. Ma alla fine, per continuare a curare la polmonite, sono rimasto ricoverato per 18 giorni in quell’ospedale, in isolamento ma in una camera singola e sempre col conforto dell’appoggio del team e dei collegamenti via skype con mia moglie. Il 19 marzo mi hanno dimesso ed è iniziato l’iter per il rimpatrio». Iter che, come detto, non è stato uno scherzo. Ma tutto è bene quel che finisce bene e dopo un mese Marini vuole ringraziare, oltre chi lo ha assistito e gli è stato vicino, anche se stesso, per non essersi «mai arreso a questo maledetto virus».

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