Clima, pesca, plastica: i pericoli per le tartarughe

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«Fondazione Cetacea dal 1992 gestisce un centro di recupero, cura e riabilitazione per tartarughe marine. Oltre alla ospedalizzazione degli esemplari in difficoltà con cure veterinarie e riabilitative, si occupa della prevenzione dei problemi che portano questi animali al nostro centro, attraverso un costante lavoro di educazione e sensibilizzazione con i pescatori, le scuole e i cittadini e incentivando l’adozione di soluzioni sostenibili e innovative». A parlare è Valeria Angelini, biologa senior di Fondazione Cetacea Onlus, realtà che dal 1988, all’interno dell’ex delfinario di Riccione, si occupa di tutelare l’ecosistema marino, soprattutto adriatico, e ogni anno ricovera e cura dalle 40 alle 60 tartarughe marine.

Davvero il nostro mare romagnolo è molto popolato di tartarughe? Dove si possono vedere?

«La zona dell’alto Adriatico è una delle più importanti di tutto il Mediterraneo per l’alimentazione di questi rettili, quindi è presente un’elevata concentrazione di tartarughe marine. Non è facile osservare le tartarughe marine in mare perché hanno apnee molto lunghe, ma alle volte può capitare di avvistarle vicino agli allevamenti di cozze».

Come se la passa questa specie?

«Nel Mediterraneo grazie ai progetti di tutela che negli ultimi dieci anni si sono attivati, la popolazione di Caretta caretta è stabile ma comunque sempre minacciata dalle attività umane e dai cambiamenti climatici».

Quali sono i principali pericoli che corrono?

«Le attività di pesca sono le principali cause di morte, soprattutto le reti da posta non lasciano scampo alle tartarughe intrappolate. Anche le reti a strascico sono pericolose ma se venissero adottati degli accorgimenti, come l’inserimento nella sacca della rete del TED, una particolare griglia, la cattura accidentale sarebbe quasi azzerata. Fanno la loro parte anche l’inquinamento da plastica, i cambiamenti climatici e la riduzione delle spiagge disponibili per la nidificazione».

In che cosa consiste la riabilitazione e come avviene poi il ritorno alla libertà?

«A seconda delle problematiche, la riabilitazione può essere di tipo motorio stimolativo (manipolazione muscolare, assistenza nei movimenti, aiuto nel nuoto…), oppure di monitoraggio in recinti in mare per valutare la ripresa effettiva dell’animale in condizioni naturali di semi libertà.

Uno dei casi più eclatanti è stato quello di una giovane Caretta caretta di nome Carolina: arrivata per ipotermia al centro di recupero, è stata colpita da un’infezione che le ha provocato la perdita di vista. È rimasta al centro, in vasca per tre anni: l’animale ha compensato questa menomazione con lo sviluppo degli altri sensi, soprattutto olfatto e tatto, riuscendo a nutrirsi in modo autonomo. Nell’area di riabilitazione a mare, allestita a Pesaro, in Baia Flaminia, si è potuto appurare che la tartaruga riusciva anche in ambiente naturale a cibarsi ed essere autosufficiente così da poter sopravvivere in mare. Dopo un’estate di osservazioni è stata rilasciata di nuovo in mare: il successo che abbiamo raggiunto con Carolina ha portato un altro Centro di Recupero, quello di Torre Guaceto, ad inviarci una tartaruga cieca degente presso loro per provare un percorso riabilitativo simile».

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