Claudio Marazzini: "La parola di Dante, uno squarcio sul mondo"

Cultura

RAVENNA. C’è Ravenna da una parte e Firenze dall’altra. E in mezzo lui, il sommo poeta, un po’ nostro un po’ loro, un po’ di tutti gli italiani che parlano e scrivono così oggi, perché lui la “inventò”, questa bellissima lingua dei poeti e della musica. Partiamo da Firenze.
Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, interviene sul settimo centenario della morte di Dante Alighieri e sul ruolo dell’opera dantesca.

Professor Marazzini, qual è il ruolo di Dante nella cultura di oggi?
«L’importanza di Dante oggi è esattamente quella di ieri: siamo di fronte a un autore che va annoverato non tra i più importanti della letteratura italiana ed europea, ma addirittura mondiale. Sono i grandi libri dell’umanità, come il “Paradiso perduto” di Milton, come “Moby Dick” di Melville, come le opere di Shakespeare, sono quegli autori che tutti al mondo conoscono. Sono le pietre miliari della capacità artistica dell’umanità. Semmai, negli ultimi secoli è cresciuto il prestigio di Dante. Nel Rinascimento la scala dei valori faceva sì che illustri critici e teorici della letteratura come Pietro Bembo collocassero Petrarca più in alto di Dante, quindi in certi momenti Dante non ha avuto quella posizione che ha assunto sicuramente dal Romanticismo in poi. Poi dal Risorgimento, con una sensibilità moderna che ama i contrasti e anche la capacità che ha Dante di scendere verso il basso, non soltanto di muoversi a un livello alto. Il gusto moderno vede in Dante, per questo suo forte realismo, un valore ancora più alto di quanto gli veniva attribuito due o tre secoli fa nella cultura europea».

Qual è la sua visione delle celebrazioni per il settimo centenario dantesco?
«Una cosa interessante è questa: le celebrazioni per i centenari di Dante non sono così antiche, la prima è quella del 1865. Il centenario del 1865 fu grandioso, perché veniva subito dopo l’unità d’Italia e Dante in quell’occasione era diventato il padre della patria. Alcuni hanno criticato questa attribuzione, e da un punto di vista strettamente storico è sbagliata: Dante credeva nella monarchia universale, aveva fiducia nell’imperatore, quindi non aveva un’idea di Italia politica. Però, allo stesso tempo, quella parola “Italia”, che risuona così pregnante, così calda in certi versi di Dante (“Ahi serva Italia, di dolore ostello, […] non donna di province, ma bordello!”), non è una semplice definizione geografica: è un concetto culturale e si basa su di una comunanza di cultura e di lingua tra gli italiani in cui Dante credeva. Le celebrazioni del 1921 furono in chiave un po’ nazionalista: tirava già aria di fascismo imminente. E fu la volta di Ravenna, che ne fu protagonista. Come si caratterizza il centenario del 2021 rispetto agli altri? Credo che questo sia l’anniversario in cui si è tentato un maggior coinvolgimento popolare e spettacolare: sono stati messi in cantiere molti eventi teatrali, musicali, anche non strettamente legati alla filologia di Dante ma in qualche modo da lui suggeriti. Quindi a maggior ragione sarebbe importante essere liberi per poter avere tutto questo fervore di attività artistiche ispirate da Dante».
Studiare Dante oggi è importante per preservare la lingua italiana?
«Dante non aveva paura di introdurre parole nuove. E non è tanto il problema delle parole forestiere: Dante era capace di prenderle e italianizzarle. Quella di Dante è una lingua che, proprio perché sta esplodendo (perché la lingua italiana dopo di lui non è più quella di prima) prende dappertutto. Nella Commedia ci sono parole che usiamo ancora oggi e altre che sono scomparse, e che sono il segno di questo potentissimo arricchimento che Dante ha introdotto nella lingua. Ogni parola nell’opera dantesca è un approfondimento meraviglioso, apre degli squarci sul Medioevo, sulla teologia cristiana, sulla mistica, su San Tommaso e qui si passa in quel terreno che i critici letterari rivendicano come proprio. Ma è talmente grande Dante che c’è spazio per tutti».

Un esempio?
«Fra le parole pubblicate di recente come Parole di Dante fresche di giornata abbiamo proposto “tin tin”, una onomatopea dal Paradiso, dove viene descritto il movimento delle anime beate, paragonato a quello di un orologio: all’epoca di Dante quell’orologio era una rarità appena inventata, non esistevano gli orologi e non avevano le lancette. Erano delle ruote, col meccanismo che funzionava con dei pesi che le muovevano, in cui una campanella suonava le ore. Erano stati introdotti in certi conventi per sapere a che ora doveva essere la preghiera. Una parola di Dante è uno squarcio su un mondo, anche una parola banale, un’onomatopea come “tin tin”».

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