Chiara Bellini, nuove identità per il Museo degli Sguardi e Part

Cultura

I musei hanno richiuso i battenti, e ciò mi fa pensare al Museo degli Sguardi di Rimini, già tristemente chiuso da anni e, temo, destinato all’oblio. La collezione è costituita dall’ex museo etnografico delle Grazie, il lascito di Delfino Dinz Rialto (cui si aggiunse, nel 1979, l’acquisto della sua collezione privata da parte del Comune) e la collezione biellese di Ugo Canepa. Quest’ultima fu oggetto di accese controversie: lo stato dell’Ecuador chiese infatti la restituzione, da parte dei Canepa, degli oltre 12mila oggetti per 2 tonnellate di peso sottratti al suo territorio. Dopo una sentenza a favore dello stato sudamericano, ricorsi e altre strane “manovre”, l’Ecuador – legittimo proprietario della collezione Canepa – ha accettato il lascito a Rimini degli oggetti, a patto che essi vengano valorizzati e che rappresentino un motivo di promozione storico-culturale del loro Paese.
Patrimonio nascosto
Non sarebbero contenti gli ecuadoregni, presumo, nel sapere che solo il 20% della intera collezione del Museo degli Sguardi era in esposizione – oggi negli abbandonati spazi di Covignano – e che il restante 80% giace in un magazzino di via Dario Campana, presumo non in condizioni di tutela degli oggetti.
Per fortuna, l’attuale amministrazione ha disposto un approfondito aggiornamento dell’inventario degli oggetti, pazientemente portato avanti da Sonia Migani, che da anni studia la storia della collezione. Ma non basta. Il museo dovrebbe riaprire in maniera appropriata, con un comitato scientifico e un progetto espositivo che tenga conto dell’acceso dibattito internazionale sui concetti di decolonizzazione delle collezioni e di restituzione degli oggetti sensibili alle comunità di provenienza. Dovrebbe essere un Museo delle Culture, e sarebbe bello rivederlo nella sua sede originaria: i Palazzi dell’Arengo e del Podestà.
Sguardi o Part?
Già, ma i Palazzi dell’Arengo e del Podestà sono ora occupati dal Part. Leggendo alcune informazioni che si trovano sul sito stesso del Part, non posso non fare paragoni con la mia esperienza professionale. Insegno alla facoltà di Arte, Design e Scienze sociali, più precisamente nel Dipartimento di Arte, della Northumbria University di Newcastle (UK). Ci occupiamo di conservazione, museologia e storia delle collezioni. Da qualche anno, un filantropo di Singapore e la sua fondazione hanno lasciato in deposito – e in parte donato – alla nostra università una collezione di opere d’arte asiatica (di cui mi occupo), europea e americana contemporanea (da Picasso a Damien Hirst, a Andy Warhol), del valore di oltre 6,4 milioni di sterline. Unitamente alla collezione, la fondazione filantropica ha donato una ingente somma di denaro per attivare nuove cattedre sullo studio dell’arte asiatica, e allestire un nuovo importante museo con un investimento previsto di 10 milioni di sterline, per i lavori di capitale, e 500mila per le attività correlate.
Il metodo anglosassone
In Inghilterra le donazioni dei privati, o il prestito in deposito, di opere d’arte e collezioni private a istituzioni pubbliche sono operazioni virtuose molto frequenti, da sempre parte della cultura anglosassone – basta leggersi la storia del British Museum. Allo stesso modo si dovrebbe salutare con gioia il deposito che la Fondazione San Patrignano ha prestato alla città di Rimini, peccato che le cose non siano proprio andate all’anglosassone, come il sito del Part lascia intendere. In Inghilterra i filantropi donano – o prestano – le opere e sponsorizzano istituzioni, senza tuttavia mai mettere becco nella loro gestione.
La gestione della collezione – dal criterio alle scelte espositive – che è stata lasciata in deposito alla mia università spetta unicamente al direttivo e al comitato scientifico. I filantropi e gli sponsor non avranno alcuna voce in capitolo su questo. Il criterio sarà rigorosamente scientifico, evitando così qualsiasi tipo di conflitto di interessi.
Alcune problematiche
Cosa non convince: il Part è gestito dalla Fondazione San Patrignano. Siccome quest’ultima ha finanziato il restauro degli spazi comunali, si potrebbe obbiettare che la gestione gli spettava di diritto, ma su questo mi sento di dissentire. Non è etico tutto questo, perché parliamo di spazi pubblici che appartengono ai cittadini.
Non è un museo
Che il Part non sia un museo lo si evince dal suo sito: nel menù di navigazione non c’è alcuna menzione a un organigramma e a un suo comitato, bensì solo l’elenco dei donatori; non ha un direttore, un comitato scientifico, né dei curatori. Non sembra esserci alcun criterio espositivo: le opere, del resto, sono state donate dagli artisti ed è quindi unicamente il caso ad averle accostate l’una all’altra. Mi chiedo in che modo questa collezione, «per sua natura disomogenea e priva di una prospettiva curatoriale preordinata se non quella di essere contemporanea» – per dirla con le parole di Luca Cipelletti (l’architetto che ha curato l’allestimento del Part e la ristrutturazione degli edifici), possa davvero dare qualcosa ai cittadini riminesi.
Il Part è una collezione privata ospitata in spazi pubblici, lo show room di una fondazione con opere in vendita. Si parla infatti di “endowment” sul sito, in parole povere: la dote della fondazione San Patrignano, il tesoretto cui attingere in caso di necessità e il cui valore aumenta anche in virtù del suo essere esposto presso spazi cittadini.
Il futuro?
Questa potrebbe anche essere un’occasione per la città ma il Comune, a mio parere, dovrebbe fare le cose per bene: istituire un comitato scientifico chiamando a lavorarvi studiosi ed esperti non coinvolti con la collezione, e dunque liberi di fare scelte espositive e di allestimento.
Sarebbe auspicabile che chiunque amministrasse la Rimini del futuro tornasse a interrogarsi su questa faccenda, che potrebbe creare un pericoloso precedente per la nostra città. Penso si debba lavorare molto su un tema importante come questo se si vuol vedere Rimini capitale della cultura.
Se fra 5 anni decadrà l’accordo con il Part, sarebbe bello riaccogliere presso i suoi spazi un Museo delle Culture, internazionale e interculturale, senza più quel vetusto “extraeuropee”, che descrive per sottrazione, e non per ciò che esse sono, le culture dell’Africa, dell’Oceania, delle Americhe e dell’Asia.

  • storica dell’arte asiatica
    Northumbria University, Newcastle

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