Chef Marco Ambrosino: "Recuperare la cultura del Mediterraneo"

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Da Procida a Milano, passando per la Valle del Bidente... in fondo sempre Mediterraneo è. È infatti quello l’ambito gastronomico e culturale che interessa allo chef Marco Ambrosino. E se è possibile disegnare la geografia per piatti, beh allora bisogna partire dall’idea che qualsiasi sia il piatto in questione è molto di più della somma degli ingredienti che lo compone. Marco Ambrosiano, dalla sua «isola di tre chilometri quadrati», come la chiama, non ha fatto l’ alberghiero ma liceo poi studiato economia, si è impegnato in politica e associazionismo. Intanto però entrava in cucina, al Melograno di Ischia con la chef Libera Iovine e, nel 2011 approdava per uno stage al Noma di Copenaghen, che già allora tracciava le linee guida della ristorazione mondiale contemporanea. Da un decennio guida una delle cucine italiane più interessanti, originali e autentiche, quella del 28 Posti di Milano. Oggi ha 37 anni, il suo ristorante che funziona, la sua professionalità riconosciuta a livello internazionale, ma anche una famiglia, moglie e due bimbi piccoli, più un progetto culturale sul Mediterraneo. «In Italia si è giovani troppo a lungo... anche a 37 anni, ma con tutto questo sulle spalle io mi sento più un uomo di mezza età», ride. E se parla di cucina sconfina molto più volentieri nell’antropologia che nella gastronomia pura. Nel 2019, poco prima che il mondo si fermasse per la pandemia, ha fondato il Collettivo Mediterraneo che vuole promuovere in maniera spontanea il confronto e la multiculturalità, la biodiversità e le esperienze gastronomiche dell’intero bacino che si affaccia su questo mare dalle culture molteplici e millenarie. Fa parte della rete “Tempi di recupero”, nata a Faenza, che nelle scorse settimane ha chiamato a raccolta tutti nel minuscolo borgo di Pianetto di Galeata, per recuperare, oltre ai prodotti e alla cucina, anche persone e luoghi.

Che cos’è il Collettivo Mediterraneo che lei ha fondato nel 2019?

«Un progetto spontaneo per recuperare una identità mediterranea raccontando la multiculturalità che lo abita da sempre. Parla anche di salvaguardia dell’ambiente, attraverso le storie di pescatori, produttori, allevatori e agricoltori che praticano la sostenibilità. In generale divulga le culture del Mediterraneo, che abbiamo perso progressivamente».

Ma come è nata l’idea? C’entra anche il fatto che nel frattempo si fosse così tanto allontanato dal suo mare?

«Io studiavo queste storie e fenomeni per piacere personale e per trasferirlo nel mio lavoro, quando stavo formando la mia cucina. Poi parlando con mia moglie lei mi ha detto: quello che già hai studiato non le devi proteggere, perché non le metti in comune con gli altri? Siamo partiti con un sito e un hashtag a fine 2019, poco prima del disastro della pandemia. Ho visto che la gente si incuriosiva, anche persone di altri ambiti. Ciascuno aveva qualcosa da raccontare, cuochi, antropologi, musicisti storici, designer. Oggi fisicamente sono una sessantina le persone che hanno contribuito, ma ci seguono in molti di più. Usciremo con delle pubblicazioni, intanto si sono formati gruppi che lavorano su temi specifici, ad esempio sui simboli che ricorrono in vari luoghi del Mediterraneo. Insomma vogliamo creare un pensiero plurale e critico su questi temi. In quest’ottica è vero che dove siamo cresciuti influisce su quello che pensiamo, ma la provenienza geografica non è tutto».

E la cucina è lo strumento che utilizza per raccontare tutto questo.

«L’intoppo sta nel voler sempre trovare un’ origine, la storia del Mediterraneo però non è lineare, è l’insieme di tante cose che partecipano a un unico risultato e questo in cucina è pane quotidiano. La cucina è uno strumento abbastanza subdolo da poter funzionare: se ti spiego che la parmigiana è una diavoleria araba che non c’entra niente con la città, ma il nome si rifà alle persiane delle finestre, io sto parlando di altro che non è solo il piatto ma di culture e genti, cose che potrebbero non interessarti se non fossero accomunate dalla parmigiana che magari è un piatto che ti piace. La cucina parte da una necessità: devo mangiare e devo farlo anche domani. Quindi si collega all’ingegno: come faccio a mangiare quello che oggi ho ma domani potrei non avere? L’esempio delle fermentazioni è perfetto. In Danimarca il Noma è stato fortissimo a saperle raccontare, ma noi nel Mediterraneo le abbiamo inventate. Solo che nessuno qua si sognerebbe di dire: ti offro questo frutto dell’olivo fermentato, ovvero le olive, è così per le acciughe, i capperi. Oppure pensiamo a certi errori diventati grandi prodotti: il marsala. Oggi non abbiamo bisogno di recuperare prodotti, dobbiamo recuperare un approccio, perché questo fa sì che potremo salvare qualsiasi prodotto. Ma attenzione, non è vero che una volta si faceva meglio, una volta si campava trent’anni, oggi però alcune cose che facevamo e abbiamo dimenticato, possiamo farle meglio con le conoscenze nuove che abbiamo».

Questo studio, le mescolanze, l’anima Mediterranea, come entra nella sua cucina?

«All’inizio poteva sembrare abbastanza schematico: prendere spunti da altre cucine, ma non è così. Il fatto è che i riferimenti della nostra cucina non sono gastronomici ma antropologici. Questo fa sì che si riesca a raccontare mangiando anche senza aprire bocca e soprattutto dal punto di vista più personale è certo che quelle cose che proponiamo siano solo nostre. È una questione di identità ma nel senso positivo e più stupido, ossia protezionistico, del termine. Unirsi alle altre identità vuol dire mettere in tavola una specie di meticciato che poi è l’origine e la natura stessa del Mediterraneo. Palermo, Napoli, Trieste, Genova, Marsiglia, sono e restano luoghi incasinati perché i posti di frontiera sono così, ma in quei porti che è nato qualcosa di bello, la civiltà mediterranea».

Progetti in corso oltre al Collettivo?

«Si chiamerà “Tavole di confine”, per portare in giro per tutto il Mediterraneo le cucine facendo incontrare cuochi, produttori e persone di diversi luoghi. Sono cose che abbiamo già sperimentato nel tempo, non dobbiamo avere paura. Certo la storia ci ha portato a un’esclusiva visione atlantica del mondo, ma un minimo di pensiero mediterraneo recuperiamolo. Come dicevamo i Casino Royale in una loro canzone “l’alba a Ovest non si vede”. Proviamo a guardare anche un po’ dall’altro lato».

La cucina dello chef. «Cucinare un piatto buono è il minimo sindacale, poi può essere ordinario o indimenticabile, ma partendo da qui, l’intento è di metterci qualcos’altro in più». Perché, appunto, un piatto è più della somma degli ingredienti che ci sono dentro. Un assaggio della cucina del suo 28 Posti di Milano, Marco Ambrosino l’ha data ai commensali romagnoli con il risotto in menù al festival del recupero la domenica sera. Con lui erano schierati anche gli chef Gianluca Gorini con un brasato splendido di pecora con crema di patate al whisky, Giovanni Cuocci con cappelletti ripieni di carne di capra in brodo di cavolo, i gelati di Giulio Rocci di Ottimo! Buono non basta Torino e Alessandro Zoli della gelateria Peace & Cream di Faenza, e il dolce ramerone dell’osteria La Campanara a chiudere.
Il risotto di Ambrosino era mantecato con una cagliata di latte fatta in giornata, ma il tocco unico lo dava lo sciroppo di polline, alloro e pasta fermentata, che conferiva un sapore agrumato unico, senza che di agrumi però vi fosse traccia. La sua insomma è una cucina che crea sapori nuovi, utilizzando spesso, appunto, ingredienti di recupero. «Ad esempio noi riutilizziamo tutte le bucce di scarto delle verdure che abbiamo usato – spiega lo chef –. Prima facciamo un’inoculazione di muffe specifiche, poi una lattofermentazione e ne ricaviamo un impasto con un sapore di humami molto concentrato che usiamo come condimento o ingrediente per altri piatti. Tre quarti dei semilavorati che utilizziamo sono prodotti da noi». C’è l’esperienza al Noma che pesa, ma non è certo da lì che vengono le ricette, da lì proviene più che altro un’attitudine che lo chef ha maturato: «Sono stato là 11 anni fa e solo due mesi – racconta Ambrosino –. La cosa che mi è rimasta è stata intanto la bellezza di lavorare in posto in cui il tema della giornata non era solo il soffritto… per carità, importante per un cuoco, ma non può essere che anche uno che lavori in cucina debba passare tutta una giornata solo su quello. Lì ho imparato un approccio, quello di ampliare i discorsi, uscire dalla questione ingrediente-piatto per metterci di più. Ho avuto la sensazione che certe cose che avevo immaginato si potessero fare davvero, che avessero un senso e mi sono sentito carico per questo». Animo mediterraneo, appunto, approccio nordico, nella cucina del 28 Posti si legge questo. Si trova negli spaghettini, acqua di pasta fermentata, miso di legumi, il tajine di rape e rose, tartufo nero, noce moscata, olio di argan, la “Chiajozza”: canocchie, ricci di mare, pino marittimo, cavolo cappuccio dalla sua isola, nelle carni di agnello e tocchi berberi. Insomma sapori dal Mediterraneo e oltre.

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