Cesenatico, libro d'arte di Mauro Pipani

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Dal senso di smarrimento causato dal lockdown alla scoperta e riscoperta di luoghi, di interni familiari e segnati dal tempo (come la piccola chiesa di Santa Lucia nel castello montianese), è nato per l’editore Danilo Montanari “Autoritratto di un luogo” di Mauro Pipani. Un racconto lungo frammenti di vita e ricordi condivisi, dove dove l’arte è protagonista, come una traccia silenziosa per immagini dell’artista di Cesenatico.

Docente all’Accademia di belle arti di Verona, Pipani ha stampato il volume-catalogo in sole 100 copie firmate e numerate, ognuna accompagnata da una piccola opera in originale della serie “Latta liquida / Landscape in tecnica mista”. Il tutto contenuto in un box in legno di faggio.

Un bel saggio di Sandro Sproccati offre nelle pagine della pubblicazione una riflessione sulla pittura e la sua identità nel contemporaneo.

Pipani, in che maniera, questo “Autoritratto di un luogo” è una sorta di “cronaca d’arte”, andando alla riscoperta di luoghi vissuti, come il castello di Montiano?

«Durante la pausa forzata della scorsa primavera era difficile per tutti trovare motivazioni per continuare a lavorare e riflettere, anche io ho cercato di trovare una via d’uscita, e la mia fortuna è stata di vivere in una parte di Romagna poco abitata e in parte abbandonata. La mia curiosità, lungo solitarie passeggiate, si è concentrata sull’aspetto di luoghi dimenticati e suggestivi. Non solo il castello di Montiano, ma anche ruderi, piccoli avamposti di presenza umana, ormai lasciati al loro destino. Qui ho trovato dei “vuoti” da riparare, delle crepe della memoria che potevano accogliere il mio lavoro, quasi a portare una nuova vita, quella che paradossalmente si era fermata nel nostro quotidiano».

Come è diventata riflessione sull’identità dell’arte nel contemporaneo?

«Trovo sempre difficile dare un significato al mio lavoro, io ci sono dentro e faccio fatica a vederlo da “fuori”, mi sento come un filtro del tempo che vivo. Ho chiesto a un amico di dare senso a questo vuoto, e Sandro Sproccati da Parigi mi ha “donato” una lezione sull’arte. Che vale per tutti, come la chiave per aprire un forziere, o una vecchia casa».

Che cos’è la ricerca per lei?

«È sempre un movimento, ha bisogno di spazi e flussi, anche di silenzi e scontri… Ma l’improvvisa distanza tra gli affetti, gli amici, l’accademia, il mondo quotidiano ha cambiato anche il flusso creativo. Serviva concentrazione per mantenere la strada, e la strada che percorrevo tutti i giorni è stata di grande sollievo, per tornare ai miei silenzi, ai colori, alle pieghe di una tela, in definitiva a ritrovare la strada della mia ricerca artistica».

Un autoritratto, lei sottolinea, non un selfie… senza cornice… memoria silenziosa…

«Sì, la mia idea di autoritratto è quella classica. Dove si riconosce chi è il soggetto, e dove i particolari raccontano le loro storie. Ma io percorro una figurazione molto personale, e invece di un viso ho rappresentato nel libro immagini di un paesaggio polimorfico, materico ma anche testimoniato da fotografie e ricordi. Un paesaggio che appartiene al mio mondo interiore, un riflesso che svela la mia identità pittorica, e si riflette sulla tela, per dare allo spettatore la possibilità di entrarvi, silenziosamente, leggendo l’opera».

In che maniera si diventa “contemporanei”, come ha detto Giorgio Agamben da lei citato, tenendo «fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio»?

«La luce rivela e ci mette di fronte alla realtà. Il buio forse, durante il lockdown è stato il momento paradossalmente “sereno”. Protetti nelle nostre case, eravamo di nuovo in sintonia con il paesaggio e il mondo, rallentati improvvisamente, fermati, ci siamo accorti che la velocità non era più necessaria, le priorità erano altre, sono emerse in primis le nostre speranze di poter essere migliori di ritrovare e rifondare nuove dimensioni etiche, e sono certo che questa debba essere la priorità in assoluto».

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