Un viaggio organizzato per conoscere il presente li ha riportati «indietro di un secolo». Non usa giri di parole la dottoressa Iliana Cecchini, pediatra cesenate, per descrivere quanto visto a Grand-Popo, in Benin. Precisa che era partita per una spedizione «esplorativa e conoscitiva del Paese», insieme a due colleghi, il marito Paolo Masperi, ex direttore sanitario dell’ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì, e il medico di base, nonché vicesindaco di Mercato Saraceno, Ignazio Palazzi. A guidare i tre sanitari nei dieci giorni di missione il parroco delle frazioni di Piavola, San Romano, Linaro, Pieve di Rivoschio e Giaggiolo, don Justin, cittadino del Benin, cresciuto proprio a Grand-Popo.
Situazione tragica
Il Benin è uno Stato con un Pil dieci volte inferiore a quello dell’Emilia-Romagna e un «sistema sanitario a pagamento – fa sapere don Justin – che consente l’accesso alle cure solo ai titolari di assicurazione», siano inequivocabili, il riscontro concreto è addirittura peggiore. Grand-Popo conta 80mila abitanti, si estende per 200 chilometri quadrati e conta 13 centri sanitari, uno solo dei quali presidiato da un medico. «L’unico collega risiede nel capoluogo –spiega Cecchini – e viene consultato al bisogno dai responsabili dei centri periferici”. «La metà dei presidi – riporta Palazzi – non ha a disposizione nemmeno una ostetrica: la maternità e il parto sono gestiti dall’infermiera, addetta anche alle vaccinazioni pediatriche, alle suture, alle medicazioni e alle somministrazioni farmacologiche». Il tutto con 1.500 nascite all’anno da affrontare, con «le gestanti che possono pagare che si recano nelle strutture e quelle più povere costrette a partorire in casa, in ambienti totalmente insalubri». Solo il centro di Grand-Popo offre servizi di «diagnosi di malattie infettive – elenca Palazzi – ma non effettua esami ematochimici, radiografie ed ecografie». I centri - sottolineano i medici italiani - sono caratterizzati da strutture vetuste e fatiscenti, necessitano di importanti interventi di manutenzione e sono privi di strumentazione e arredi adeguati all’assistenza medica.
Il dramma più rilevante è che «solo due dei 13 centri – riferisce Cecchini – hanno l’acqua potabile: dove non arriva le infermiere riempiono i secchi dalle cisterne». Assente anche l’illuminazione pubblica: «Di notte le persone girano per le strade di Grand-Popo completamente al buio, mettendo sé e gli altri in situazioni di pericolo. Fino a qualche anno fa, nel centro città, i lampioni funzionavano poi si sono fulminate le lampadine a led e non sono mai state cambiate». Parte da queste basilari esigenze il progetto umanitario dei missionari romagnoli. «Abbiamo incontrato sindaco di Grand-Popo e vescovo di Lokossa – racconta Cecchini - Hanno avanzato due sole richieste essenziali: acqua potabile e luce». Sfruttando quello che c’è: «Il sole, con l’installazione di un impianto di pannelli fotovoltaici. Ma tutto ha un costo e qui le risorse rasentano il nulla».
Iniziative solidali
I volontari intendono cercare «il sostegno di case di cura od ospedali della Romagna, attraverso la fornitura di letti non più utilizzati, materiali considerati di scarto e tutto quello che potranno donare». E per lo sviluppo culturale, educativo e professionale della popolazione, coinvolgeranno «le aziende agricole più forti del nostro territorio, affinché possano insegnare in loco la coltivazione della terra e lo sfruttamento delle risorse, costruendo nuovi percorsi di lavoro». Per raccogliere i soldi necessari, si organizzeranno «eventi conviviali di beneficenza, nelle quali illustreremo i nostri progetti sperando di toccare i sentimenti di molti»