Sfruttamento e agromafie: spunta anche la caporala

Cesena

CESENA. «Abbiamo una quota di economia legale che fa profitto grazie al lavoro illegale». Così ieri Roberto Iovino, della Flai Cgil nazionale, ha sintetizzato il fenomeno del caporalato. Lo ha fatto introducendo il quarto Rapporto su agromafie e caporalato, curato dall’Osservatorio Placido Rizzotto, presentato nella sede cesenate della Cgil.

Non solo “mele marce”

«Il lavoro irregolare - ha detto Iovino - incide per il 15,5% sul valore aggiunto del settore agricolo italiano. Il business del caporalato vale 4,8 miliardi di euro, di cui 1,8 miliardi di evasione contributiva. È evidente che tratta di un problema che riguarda un intero Stato e non solo un settore economico e lavorativo. Dobbiamo uscire dal falso mito che si tratti di qualche “mela marcia”. I dati raccolti provano che c’è un sistema consolidato».

L’atteggiamento poco collaborativo e di pregiudizio nei confronti della nuova legge sul caporalato da parte delle associazioni di categoria datoriali, secondo Iovino, è stato superato nei fatti: «La Legge 199 ha dimostrato di tutelare i lavoratori, ma anche gli imprenditori onesti, che finora hanno subito la concorrenza sleale di chi si affidava ai caporali».

Lo studio

Quello presentato - ha sottolineato Francesco Carchedi, dell’Università La Sapienza - è uno studio «ha tutte le carte in regola sotto il profilo dell’attendibilità scientifica». Il professore nel suo intervento si è soffermato in particolare sulla figura del caporale, «che non è sempre straniero, come qualcuno vorrebbe far credere». Ci sono reclutatori e capi-squadra, chi gestisce piccoli gruppi, chi invece coordina centinaia di braccia aggregando più squadre. Più si cresce di numero, più l’organizzazione da orizzontale si fa piramidale, con un vertice dove sempre più spesso è facile trovare criminalità organizzata anche di stampo mafioso. Nel capitolo dell’osservatorio dedicato all’Emilia-Romagna ampio spazio è dedicato alla realtà di Forlì-Cesena, dove non mancano esempi di condizioni di lavoro «para-schiavistiche». I settori della raccolta della frutta e della zootecnia sono i più colpiti dal fenomeno, che però tocca anche il badantaggio e il turismo della riviera.

Il caporalato a Cesena

Nell’area di Cesena - si legge nel Rapporto sulle agromafie - per diversi anni è stata attiva (e lo sarebbe ancora secondo le testimonianze raccolte e nonostante le denunce) una donna caporale rumena, sposata con un italiano. Quella che hanno messo in piedi viene descritta come una struttura «piramidale e multinazionale». Alla coppia fanno capo infatti una serie di caporali, in parte residenti in provincia di Forlì-Cesena e in parte in Romania, questi ultimi addetti al reclutamento della manodopera in patria. A un livello successivo ci sono le strutture formate da ex galeotti romeni e italiani e da persone addette al controllo e alla eventuale repressione. Poi c’è chi si occupa della logistica: raccolta e trasporto dei braccianti, ma anche ricerca di alberghi e case dove farli dormire. Meno potenti sono le organizzazioni che fanno capo a caporali marocchini e pakistani, che spesso hanno un rapporto di dipendenza con la macrostruttura della caporale rumena. Tra i lavoratori c’è chi dietro la promessa di un lavoro sicuro e remunerativo paga da 6.000 a 8.000 euro per arrivare in Italia, salvo poi finire a vivere stipato in case dalle condizioni igieniche precarie. Il tutto per 30-35 euro a giornata, come compenso per 10-12 ore di lavoro, sette giorni su sette, e a volte anche fuori dal territorio regionale.

“Oltre la strada”

Il contrasto, perché sia efficace, ha bisogno della cooperazione di soggetti diversi: dagli organi ispettivi alle forze dell'ordine ai sindacati. Giocano un ruolo chiave in questo lavoro di squadra gli operatori del progetto “Oltre la strada”, pensato per le vittime di tratta e di sfruttamento sessuale e lavorativo. La stretta collaborazione con il Punto di appoggio al lavoro di cura dell’Asp ha permesso di far emergere una situazione di grave sfruttamento di badanti provenienti dall’est Europa, che finivano in mano ad organizzazioni trasnazionali gestite da italiani con collaboratori nei Paesi di partenza di queste donne. Fondamentale il sostegno a quei lavoratori immigrati vittima di truffe dei loro connazionali.

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