Crac A.C. Cesena «pessimo affare per tutti e nonostante il debito ridotto di 40 milioni»: chiesta assoluzione degli ultimi 6 imputati

Cesena
  • 02 luglio 2025

«Il fallimento dell’Ac Cesena, a ben guardare, è stato un pessimo affare per tutti. Un’azienda calcistica non è come le altre. Col fallimento si perde tutto. Così ci ha perso la città di Cesena, l’indotto, i soci della società stessa e con loro anche tutti i creditori: in primis il fisco». Nelle ultime arringhe delle difese nel processo per il crac del Cesena Calcio, ieri nell’aula del presidente Marco De Leva (con giudici a latere Giorgia Sartoni e Federico Casalboni) è stato l’avvocato Stefano Spinelli a sintetizzare il peso sulla città di quanto avvenne sette anni fa col fallimento dell’Ac Cesena.

Lo ha fatto col professor Nicola Mazzacuva nel prendere le difese del loro assistito, il sindaco revisore della cooperativa controllante Cesena&co Enrico Brunazzi, primo imputato della ultima sequela per i quali ieri mattina è stata chiesta l’assoluzione. Anche per lui la Procura (pm Francesca Rago) aveva chiesto la condanna.

Nessun suicidio

«Nelle richieste di pena formulate - ha dettagliato in punta di diritto Nicola Mazzacuva - si ipotizza che i sindaci abbiano collaborato a condotte dolose, e quindi suicidiarie, di un’azienda calcistica. Laddove invece tutto il focus era quello di cercare in ogni modo la prosecuzione dell’attività d’impresa. Non vi è traccia di una ordinaria follia imprenditoriale nell’agire: è stato chiarito a più livelli come l’Iva di gruppo tra controllante e controllata non solo era un’operazione lecita, ma portava vantaggi economici ai bilanci. Inoltre i collegi societari hanno stigmatizzato quando ve ne fosse stato bisogno, laddove potessero esserci dei patimenti finanziari. Sono state immesse finanze e sia la Federazione che la Covisoc eseguivano puntuali verifiche».

«Un’innocenza di Brunazzi che si annida nei fatti - ha rimarcato l’avvocato Spinelli -. Una società di calcio non è una società normale. Se chiedi il fallimento di un’immobiliare che ha 100 appartamenti di proprietà conservi il patrimonio per i creditori. Nel calcio il fallimento demolisce tutto. Si rompono i rapporti coi calciatori e di conseguenza non c’è più patrimonio».

Strategia di sopravvivenza

L’intento era dunque pagare. Almeno tutto quanto fosse necessario per restare in vita. «Era un obbligo per il Cesena - ha rimarcato l’avvocato Alessandro Sintucci in difesa dell’amministratore Graziano Pransani e del socio di controllata e controllante Mauro Giorgini - e Giorgio Lugaresi lo ha evidenziato anche quando ormai la sua posizione è fuori da tutti i giochi processuali. Il reato contro Pransani è prescritto ma ne voglio sottolineare l’innocenza a prescindere evidenziando anche come la Finanza non abbia in alcuni casi chiarito quali siano le prove di aver “sovra stimato a bilancio” giocatori che poi hanno militato una volta svincolati dal fallimento in prestigiose società europee. Lugaresi ha detto come per sistemare i bilanci venissero fatti degli interventi di tipo economico. Poi si faceva leva sul mercato giocatori. Sistemare il bilanci significava potersi iscrivere. Pransani non aveva alcun tipo di deleghe o di competenze tecniche sul calciomercato e le operazioni dei giocatori che finivano a bilancio venivano firmate da Lugaresi. Il fine dunque era sostenere il bilancio e non mettersi soldi in tasca».

Poi per Mauro Giorgini: «Viene contestata l’Iva di gruppo come dolosa in quanto con presa di coscienza di non voler poi pagare le tasse. Ma se un soggetto rateizza lecitamente non lo si può certo dichiarare insolvente. Lo stesso curatore fallimentare sottolinea che la società ha rispettato tutto quanto in essere fino al 2018. Lo fa dopo aver indicato il 2013 come data “di non ritorno” del dissesto. Dimenticandosi di come il debito complessivo della società sia stato in quegli anni intercorsi tra il 2013 ed il 2018 abbassato di 40 milioni. Mauro Giorgini era certo che le rateizzazioni venissero pagate a scadenza. Di certo nei verbali del cda non si fa in alcuna maniera mai menzione di non voler pagare. Il tutto veniva ogni anno avvallato da Covisoc e Agenzia delle Entrate: un amministratore senza deleghe che danni poteva fare in un contesto simile? Le garanzie della sopravvivenza societaria erano date dai due milioni di spese affrontati trimestralmente per garantire la sopravvivenza della società. Invece quando l’Agenzia delle Entrate non ha accettato il piano di rientro fiscale tutto è salato per aria. Senza che nessuno sia stato chiamato a rispondere di questa decisione».

Plusvalenze vere

Nella difesa dell’ex direttore sportivo Rino Foschi curata dagli avvocati Mattia Grassani e Claudio Iovine, c’è l’essenza di quanto Foschi ha sempre ribadito nel tempo. Le sue operazioni erano legate alla prima squadra. E quando faceva plusvalenze erano operazioni vere, che immettevano soldi nelle casse societarie. Non operazioni “a specchio” di natura solo contabile che riguardavano invece solo il settore giovanile. «Foschie era direttore sportivo con contratto a tempo determinato. Sottoponeva agli amministratori e alla presidenza le operazioni ed i relativi costi. La Covisoc, al di la del dopo fallimento, nei 5 anni di presenza di Foschi non aveva mai rilevato carenze. L’area contabile societaria sottolineava alla presidenza cosa servisse. E i soci o immettevano soldi o davano input di eseguire operazioni di mercato. Negli anni di Cesena prima del fallimento Foschi ha portato a termine 15 operazioni di vendita con un surplus per la società di 29 milioni di euro. Le operazioni del settore giovanile ritenute illecite non venivano in alcuna maniera seguite da Foschi. Quello era un compito del responsabile del settore giovanile ossia Luigi Piangerelli. Per quanto riguarda le plusvalenze nel settore giovanile e col Chievo è emerso come Foschi fosse strenuamente contrario e che lo avesse rappresentato più volte anche a Lugaresi ed anche arrabbiandosi».

Niente ruoli dal 2015

Chi tra gli imputati non aveva più ruoli nell’Ac Cesena dopo il 2015, quando cioè la situazione pareva “normale”, è l’ex socio Christian Dionigi, uscito a metà di quell’anno dal board dell’Ac Cesena ed entrato soltanto tempo dopo in quello della controllante Cesena & Co: «Era in società una volta raccolta l’eredità della gestione Campedelli - ha sottolineato l’avvocato Antonella Monteleone - ma ne è uscito nel 2015. In quel frangente le rateizzazioni con l’Erario erano state parzialmente onorate e fino a quel momento il debito con l’Erario era stabile. Diverso il discorso per il debito complessivo della società. Che nel periodo di Christian Dionigi è calato di una trentina di milioni. II debito tributario non era una strategia premeditata di non pagare. Qui nessuno, in primis Dionigi, destabilizzava l’impresa anzi: si tratta di tutte persone, i soci, che sono talmente appassionate di calcio e di Cesena da essersi esposti anche con un mutuo alla nascita della società controllante. Dionigi non faceva più parte dell’Ac Cesena da oltre due anni quando la Covisoc, la Federazione e l’Agenzia delle Entrate hanno iniziato a stigmatizzare il quadro finanziario del Cesena. Solo poco prima, nel 2016, era una società che incassava i complimenti per come veniva gestita anche dall’attuale ministro Andrea Abodi».

Affari di famiglia

A chiudere le richieste di assoluzione l’avvocato Daniele Molinari in difesa del socio Claudio Manuzzi. Il cui coinvolgimento nella vita del fu Ac Cesena è stato sottolineato come del tutto estraneo alle dinamiche contabili: «Si tratta del pronipote di Dino Manuzzi - ha spiegato l’avvocato Molinari -. Gli venne chiesto di entrare a far parte dell’Ac Cesena e lo ha sentito come un dovere familiare e morale in continuità con le ere del grande Cesena del passato: quello di Dino Manuzzi prima e di Edmeo Lugaresi poi. Si tratta di una persona che nella vita fa l’impiegato di banca: non ha specificità legate la mondo del calcio e neppure il pubblico ministero nel chiederne la condanna ha in alcuna maniera sottolineato delle sue competenze. Non ha ricevuto compensi e non aveva ruoli operativi. Non può aver partecipato a nessuna delle accuse che gli vengono contestate. I consulenti e il liquidatore indicano nel 2013 la data del dissesto economico irreversibile dell’Ac Cesena. Ma lo stesso curatore sottolinea come i nuovi soci, tra cui Manuzzi, abbiano immesso liquidità nelle casse societarie. L’indebitamento complessivo è calato di 40 milioni e il curatore non ha valutato neppure le tante operazioni di calcio mercato fatte. La Covisoc controllava ed avallava ogni cosa. Le rate dell’Iva non sono un illecito. Che parametri avrebbe mai potuto avere Manuzzi per sospettare un imminente fallimento?».

A metà mese il verdetto

Il 15 luglio verrà letta la sentenza del processo penale di primo grado per il Crac dell’Ac Cesena. L’appuntamento è fissato per la mattina alle 9 ma non ci saranno repliche in forma orale. Il pm Rago ha preannunciato che replicherà si, ma in forma scritta e depositando telematicamente le ulteriori conclusioni al Collegio. Lo stesso dunque sono stati chiamati a fare gli avvocati difensori.

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