Cesena, i ricordi di Riccardo l’angelo in kayak: «Di quella esperienza rimane la consapevolezza della potenza della comunità»

Cesena

Capita spesso raccogliendo storie e ricordi dei giorni dell’alluvione che le emozioni di quei giorni tornino con una forza che spesso sorprende per primo chi racconta. È successo anche a Riccardo Di Stefano, 30 anni, dipendente Technogym, arbitro, all’epoca studente a Modena dove frequentava un master in sport management. Di Stefano è uno di quei tanti cesenati che si sono attivati per dare una mano, lo ha fatto sin dalle primissime ore dell’emergenza, quelle dei soccorsi alle persone rimaste intrappolate nelle loro case e ha continuato quando bisognava pulire dal fango le case.

«Quel giorno mi trovavo a Modena per ragioni di studio. Quando ho cominciato a vedere foto e video, ho capito che la situazione stava peggiorando rapidamente e da buon scout - dice ridendo - ho deciso di tornare». I treni avevano già smesso di circolare, ma alla fine è riuscito a trovare un passaggio e raggiungere Cesena. Cresciuto a San Mauro in Valle, è la zona di San Rocco la prima a cui ha pensato e avvicinandosi alla via Ex Tiro a Segno ha avuto la conferma dei suoi timori. Era ormai sera e i soccorritori stavano già operando nella via insieme ad altre persone che, come lui, volevano mettersi a disposizione: «C’erano dei ragazzi appassionati di pesca che avevano un gommoncino, a un certo punto si è avvicinato un medico con un kayak gonfiabile che però non sapeva usare. Gli ho detto di gonfiarlo che io invece ero in grado di usarlo. All’inizio c’è stato da discutere con le forze dell’ordine che coordinavano i soccorsi. Il timore, comprensibile, era che si creassero ulteriori situazioni di pericolo. Ma nella via era pieno di macchine e oggetti che galleggiavano e in alcuni punti i loro mezzi non riuscivano a passare così alla fine ci hanno fatto andare». Di quei salvataggi ricorda soprattutto l’adrenalina e l’oscurità: «non so nemmeno se saprei riconoscere le persone che ho aiutato, era troppo buio».

La mattina dopo sono stati i ragazzi del gommone a contattarlo: «Stavano andando in via Roversano dove in quel momento non c’erano soccorritori». Nella via erano rimaste le persone che avevano un secondo piano in cui salire. Nel pomeriggio fino a notte era stato portato via chi era rimasto intrappolato in case solo ad un piano e nella notte l’emergenza si era spostata nella zona di Ronta. In mattinata era arrivata una nuova allerta: c’era il rischio di una nuova esondazione: «Nessuno sapeva come sarebbe stata, e ad alimentare le paure circolava la voce, falsa, della diga di Quarto». Passando di abitazione in abitazione hanno portato via persone che avevano trascorso la notte al buio: «Le case erano quasi tutte senza elettricità, i cellulari cominciavano a scaricarsi. Molti erano anziani e abbiamo dovuto convincerli, spiegare che non era sicuro rimanere, che nessuno sapeva come sarebbe stata la prossima piena». Racconta di due ragazze Erasmus, una uzbeka e una turca, rimaste bloccate in una delle case laterali, ma il salvataggio che più gli è rimasto impresso è quello di una famiglia. «Avevano due bimbi, uno di 3-4 anni, l’altro di pochi mesi. Per come era fatta la casa non riuscivamo ad avvicinarci troppo, così ci siamo dovuto organizzare un passa mano, passandoci questi bimbi da un mezzo all’altro». Mentre lo racconta si deve fermare, gli si spezza la voce, «Non pensavo di emozionarmi ancora così tanto - dice quasi a giustificarsi -, è l’immagine più nitida che ho di quel giorno».

Qualcuna delle persone che ha salvato gli è capitato di incontrarla. «Con un ragazzo in particolare ci salutiamo spesso: il padre era uno di quelli che volevano lasciare la casa, e lui non riusciva a raggiungerlo. Ci aveva chiesto aiuto per convincerlo ad andare via da lì». Da quelle vie che ha attraversato in kayak, sfigurate dall’acqua e dal fango, ripassa spesso. «Faccio la via ex Tiro a segno ogni giorno e ancora mi emoziona tantissimo ripensare a com’era in quei giorni». Se quel giorno è tornato ad aiutare è per una certa «vocazione ad aiutare», la descrive così, ma anche e soprattutto per il sentimento di affetto profondo che prova per la sua città e che in quei giorni ha scoperto di condividere con tanti altri cesenati. A un anno di distanza di quell’ondata di solidarietà, «forse in superficie è rimasto poco, nel senso che è meno visibile, ma credo che nel profondo, in chi ha vissuto quei giorni, sia rimasta la consapevolezza della potenza dell’unione e della comunità».

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