Acquacoltura, stangata sui canoni: aumenti superiori all'inflazione

Cesena

L’aumento dei canoni demaniali deciso dal Governo segna tempi duri nell’"industria del mare” non solo per i gestori degli stabilimenti balneari, ma si ripercuote anche sulle imprese di acquacoltura e cooperative di pesca che operano sulle acque demaniali. Anche per queste, nell’anno appena iniziato è previsto un adeguamento dei canoni per le concessioni demaniali marittime pari al +25,15%. In base alle nuove tabelle, la misura minima del canone è di 3.377,50 contro i 2.698,75 del 2022, ma la corsa al rincaro era partita già nel 2020, anno in cui si passò da un importo minimo di 361,89 a 2.500 euro. Lungo il tratto di costa romagnola questa modifica va direttamente in tasca a 25 aziende, tutte cooperative, dedite sostanzialmente all’allevamento di cozze. «Queste cooperative gestiscono complessivamente 27 impianti collocati in mare aperto fra Goro e Cattolica - spiega il presidente del Consorzio Mitilicoltori dell’Emilia-Romagna, Giuseppe Prioli, che ha sede a Cattolica- . Una quindicina di questi si concentra a Goro, 7 fra Rimini e Cattolica, 3 nel Ravennate, e 3 nell’area di Cesenatico». Annualmente producono complessivamente una media di 20mila tonnellate di prodotto, molto del quale prende la via dell’export in particolare verso Spagna e Francia oltre che sui mercati di altre regioni italiane, mentre resta prevalentemente sul mercato regionale lo sfuso a marchio di pregio “Cozza Romagnola”. «La natura cooperativa delle nostre aziende di mitilicoltura, in Romagna non abbiamo invece pescicoltura in mare, comporta alcune peculiarità - spiega ancora Giuseppe Prioli - intanto l’estensione molta ampia delle superfici in concessione. Partiamo da almeno un milione di metri quadrati a crescere, e per questo non rientrano nella fascia di maggiore incremento sul canone minimo, cosa che tocca invece chi ha concessioni per estensioni più piccole. Inoltre le cooperative godono di “canoni ricognitori” in base a una vecchia norma degli anni Trenta che fa sì che, a titolo di esempio, se nel 2022 il canone era di 0,0044 centesimi a metro quadrato oggi passa a 0,0055 euro. Date queste condizioni, il canone in sé per gli allevatori che gestiscono grandi estensioni in concessione resterebbe ancora sostenibile, ma non è comunque equa la misura: non si capisce infatti perché l’aumento debba essere così alto, ben oltre il tasso medio di inflazione. Si aggiunge il fatto che non è purtroppo questo l’unico aumento che grava sull’impresa, cooperativa o no, che alleva in mare». «A conti fatti, se per una concessione di un milione di metri quadrati un allevatore pagava un anno fa 4.400 euro, da quest’anno solo per questo rincaro pagherà 5.500, ma a questo va aggiunto anche l’aumento della tassa regionale, che è il 5% del canone, oltre agli aumenti di tutte le materie, dal gasolio, alla plastica per i confezionamenti...», rimarca Prioli. Alleanza delle Cooperative pesca a sua volta ha espresso immediatamente preoccupazione per quello che definisce «un salasso insostenibile e ingiustificato con aumenti più del doppio rispetto all’inflazione che sfiora il 12%». Rilanciando a livello nazionale: «Occorre invertire la rotta, riducendo gli aumenti dei canoni alla luce anche del peso che devono affrontare le imprese ittiche per far fronte dell’aumento dei costi energetici». Posizione condivisa dal referente emiliano romagnolo, il riminese Massimo Bellavista: «Un aumento doppio rispetto all’inflazione che non si giustifica, per questo chiediamo al governo di affrontare a breve il tema, anche perché i costi di cui si caricano i produttori a catena si scaricheranno sui consumatori».

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