Cesena, la lezione di Bolchi e una squadra da tutelare

Bruno Bolchi, quindi. Dove sta la sua modernità? Per rispetto verso un uomo che non amava le ipocrisie, la risposta non è facile. Il suo calcio a Cesena non è mai sembrato moderno: le sue partite erano un inno alla sofferenza, Scarafoni, Dolcetti e Hubner erano un velo di Nutella su fette di pane durissimo. Cavasin prima e Scugugia poi sono stati i simboli di interminabili trincee di fronte ai mandolini suonati da Zeman o Galeone.
Poi c’era lo spessore dell’uomo, di cultura superiore. Forte di un eloquio professorale e di un vocione a metà tra Placido Domingo e le televendite di Roberto da Crema, difendeva il suo calcio e i suoi calciatori con ostinazione feroce. Una volta si infuriò con un giornalista del Corriere Romagna (nello specifico Daniele Della Strada) perché scrisse di un allenamento in cui Salvetti era stato mandato in doccia in anticipo a suon di urlacci. Della Strada replicò dicendo che se un giornalista assiste ad una certa scena, per di più vista da una cinquantina di tifosi a bordo campo, e poi non la scrive, non è che faccia una grandissima figura. Bolchi accettò in parte la spiegazione e abbassò il tono della rabbia, così quelle urla che prima si sentivano fino a Borello, si limitarono a fare vibrare le vetrate di mezza San Vittore, neanche fossero i bassi del vicino Vidia Club.
Il suo culto dello spogliatoio e della difesa del gruppo erano totali. Nell’autunno del 1986 ce l’avevano tutti con lui, mentre la squadra non ingranava e preparava il lancio del 22enne Sebastiano Rossi e del 19enne Ruggiero Rizzitelli. Dopo un Cesena-Lazio 1-1, Cavasin e Cuttone andarono a strappare lo striscione “Bolchi vattene” per riconoscenza a un allenatore che si prendeva tutti i fischi e faceva da ombrello ai giocatori, fino allo spareggio per la Serie A vinto col Lecce.
È lo stesso allenatore che nel 1994 volava bassissimo, mentre il suo Cesena era una macchina da contropiede capace di vincere 8 trasferte. E Bolchi a parlare solo di salvezza fino allo sfinimento, per togliere pressione ai giocatori a costo di apparire antipatico col resto del mondo. C’erano i 2 punti a partita e il Cesena era in piena corsa per la A, ma non lo ammise mai, fino alla pennellata finale di un discorso alla squadra in aprile: «Bene, ora la quota salvezza è a 44 punti». Con 44 punti si andava in A, il Cesena ne fece 43 e andò allo spareggio perso contro il Padova.
L’anno successivo fu ben più triste e si ricorda tra gli altri un Cesena-Venezia 1-2 in cui Dolcetti fu sommerso dai fischi. E Bolchi in sala stampa gelido: «Oh ragazzi, intendiamoci, chi fischia Dolcetti, fischia il calcio». Risultato: eravamo tutti entrati in sala stampa incavolati neri con Dolcetti che non aveva imbroccata una, ne uscimmo tutti incavolati con Bolchi. E avevamo abboccato per l’ennesima volta: aveva tolto pressione ai giocatori, come sempre, mettendosi davanti quando le cose andavano male, per poi fare un passo indietro quando le cose andavano bene.
Eccola, la lezione che ci ha lasciato Bruno Bolchi: sapere di calcio restando umili, con i giocatori che sono un patrimonio da difendere, non un giocattolo da esibire per la vanità di un allenatore o di una società. E allora forse proprio in queste settimane a Cesena abbiamo capito la sua vera modernità. Ci sono tanti modi per provare a vincere e non c’era nessun bisogno di dichiarare in luglio che si vuole arrivare primi: una squadra completamente nuova si sarebbe risparmiata un po’ di fischi e sarebbe stata più tutelata. Quest’anno invece passeremo tutto un campionato a leggere la classifica partendo dall’alto, scorrendo il dito verso il basso per trovare il Cesena: più tempo ci metteremo, più aumenterà il volume dei fischi e non c’è più Bruno Bolchi che va a prenderseli per tutti.

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