Cervia e la storia di Isotta Gervasi, la dottoressa in bicicletta

Cervia

Nel 150° anniversario dalla nascita di Grazia Deledda emerge con forza anche il nome di Isotta Gervasi, fra le “amiche” cervesi della scrittrice premio Nobel. Insieme a Lina Sacchetti, anche la “dottoressa dei poveri” è infatti il genere di donna che andava a genio a “Cosima”. «Quella donnina malvestita – la descrive lo storico Umberto Foschi – incurante delle apparenze, era ricca di sostanza umana, nascondendo un cuore d’oro. Era impegnata a compiere con scrupolo e dedizione la sua nobile missione di medico».

Ecco spiegato l’arcano: la Deledda non poteva che appassionarsi a un personaggio che si dedicava alla causa altrui, sacrificando perfino sé stessa. Addirittura regalava alle famiglie di braccianti il contenuto delle sue sporte, aggiungendovi quando non bastava anche i medicinali e addirittura denaro. La dottoressa nacque nel 1889 a Castiglione di Ravenna e raggiungeva i pazienti in bicicletta con qualsiasi tempo, anche di notte. Altri tempi, che le procurarono però una forma reumatica acuta, dovendo rimanere per molti giorni a letto. Fu così che si comprò una Fiat 509 prima e una Balilla dopo. Alla sera, poi, dimessi i panni del duro lavoro, indossava quelli più eleganti della donna di buon gusto.

L’incontro fatale fra la Gervasi e la Deledda avvenne a La Fratta, dove la dottoressa era stata chiamata come consulente onoraria e la scrittrice faceva le cure termali. Fu un lampo a ciel sereno, che coinvolse in questa amicizia anche Marino Moretti a Alfredo Panzini, i componenti del cenacolo deleddiano che subito l’autrice di “Canne al vento” le presentò. La Deledda la ritrae nell’elzeviro “Agosto felice”, l’ultimo trascorso a Cervia nel 1935, con un presagio quanto mai veritiero. Immaginava infatti di «andarsene per l’ultima passeggiata in carrozza verso la pineta, una sera di ottobre, accompagnata dall’inno sacro del mare».

Sì, la scrittrice avrebbe preferito morire a Cervia, era il suo posto preferito anche per intraprendere l’ultimo viaggio, mentre alla Gervasi riservò l’ultimo affettuoso saluto: «...quando arriva da Ravenna con la sua macchina da traguardo, bisogna quasi far festa alla malattia come ad un’ospite ingrata che sappiamo di dover fra qualche ora congedare». «La dottoressa è bella, elegante – aggiunse –; alla sera si trasforma come la fata Melusina, con i suoi vestiti e i suoi gioielli sfolgoranti e gli occhi e i denti più sfolgoranti ancora: una fata lo è anche davanti al letto del malato, sia un principe o un operaio».

Poi venne la guerra, ma la Deledda non c’era già più. Isotta accorreva invece dove era necessario in veste di crocerossina, e aveva dovuto inforcare nuovamente la bicicletta. Visitava due volte al giorno i cervesi sfollati nei capanni e colpiti dal tifo, pur sapendo che non avrebbe ricevuto alcun compenso. E forse pensò sempre all’amica Grazia, fino alla fine, perché quel misto di umanità e conflitti esistenziali le univa più che mai anche se il destino le aveva separate. M.P.

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