Cavina a Ravenna presenta il suo ultimo libro: l'intervista

Lo scrittore Cristiano Cavina sarà ospite questo pomeriggio della rassegna Il tempo ritrovato, alle 18 alla biblioteca Classense, e dialogherà con Matteo Cavezzali sul suo ultimo romanzo, “La parola papà”, edito da Bompiani. Nato a Casola Valsenio, Premio Tondelli per “Alla grande”, selezione Premio Strega con “I frutti dimenticati”, nel suo ultimo romanzo Cavina affronta il tema della paternità e della famiglia.

Cavina, che storia racconta il suo “La parola papà”?

«È difficile dirlo perché il libro non segue la trama classica inizio-sviluppo-fine, ma sono tanti momenti sparsi nel tempo della vita del protagonista. Diciamo che sostanzialmente si tratta di un padre di tre figli che fa un viaggio in macchina verso l’ultimo luogo misterioso della sua vita che è questo padre che non ha mai conosciuto. E questo torna nel corso dei salti nel tempo e così uno ricostruisce un po’ il passato del protagonista: il suo essere cresciuto senza padre ma anche come è diventato lettore, come è diventato scrittore, come è diventato padre di vari figli, i suoi rapporti nell’amore, nei sentimenti, il suo rapporto con la madre. Questo è sostanzialmente il libro, insomma».

C’è un tratto autobiografico, come è spesso nei suoi romanzi?

«Sì. La cosa particolare è che una delle cose di cui parla il libro riguarda quanto c’è di vero o no in come ci raccontiamo e anche in quello che siamo. E quindi per certi versi è molto autobiografico ma comunque è un romanzo, perché l’atto stesso di raccontare cambia la realtà: il protagonista si rende conto che anche la percezione che lui ha di sé, che gli altri hanno di sé, è tutto un equilibrio tra finto e vero. Gli altri ci percepiscono in un modo che magari è come siamo ma non è esattamente come siamo. Ed è come i libri: siamo finti e veri nello stesso tempo, ricreiamo la nostra vita, il nostro carattere giorno per giorno».

In questo ha un ruolo importante il luogo dove è nato, Casola Valsenio?

«Una delle spinte del libro, che è anche una delle storie che vengono fuori in questo viaggio in macchina, è proprio che lui fa questo viaggio anche perché è un tipo che non prende mai direttamente le cose che gli succedono, è uno che cerca di rimandare sempre i nodi della sua vita. E uno dei nodi è – quello è anche autobiografico – che lui sa che di lì a poco dovrà andare via dal suo paese e dalla sua casa, e pur di non parlare di questo e non pensarci, va a vedere quest’altro buco nero, che è più affrontabile. E il libro è anche un po’ un addio del protagonista, non per sempre, ai luoghi in cui è nato e cresciuto, alla casa in cui è nato. Quindi c’è anche il rapporto col paese, che il protagonista, come me, ha dovuto lasciare. Il paese lui lo chiama “quassù”, perché c’è un momento in cui lui litiga con la sua compagna, e lei gli dice “io non ci sto quassù”. Nel mio caso è Casola, che per me è il posto più bello del mondo, anche se so che non lo è esattamente. Però è anche uno di quei posti in cui è difficile stare, soprattutto se non ci sei nato, perché non hai l’epica del luogo: uno che non ci è nato si ritrova in un posto in cui non conosce nessuno, ti sembra più lontano di quello che è. E quindi il libro racconta un po’ questo, i “quassù” che ci sono in Italia».

Quindi la scrittura è anche un modo per affrontare alcuni nodi?

«Sì, può essere. Io penso che il più delle volte lo scrivere, al di là del pubblicare o meno, abbia sempre a che fare con una specie di tenere compagnia a se stessi. A volte è un modo per consolarsi da soli, quando ti metti a scrivere, a volte per tirare fuori invece i tuoi odi, i tuoi rancori, le cose brutte. E questo sì, è sempre stato così: per molti si inizia a scrivere non pensando “faccio un romanzo”, ma inizi a scrivere perché senti che devi scrivere e dopo ti metti lì sulla pagina che è un po’ uno specchio in cui ti guardi e ti dici “oggi fai schifo” oppure ti dici “dai, tutto sommato non sei così male”. Quindi è un po’ un consolarsi, farsi compagnia, o anche tirare fuori i problemi e la rabbia».

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