Lugo, caso Balla: ecco come uscì il metadone killer dal Sert di Ravenna

Ravenna

Per almeno quattro mesi, tra novembre 2016 e marzo 2017, dal Sert di Ravenna sono uscite fialette di metadone, ritirate dalla zia di una paziente “fantasma”, non sottoposta a costanti esami delle urine o test tossicologici, e seguita in “super anonimato” da una dottoressa del servizio per le tossicodipendenze, la quale, anziché visitare l’assistita settimanalmente, si sarebbe limitata a 7 incontri, alternati a colloqui telefonici. La parente avrebbe invece ritirato i farmaci senza alcuna delega ufficiale, ignara che anziché assumerli la nipote li avrebbe spacciati ad amici e conoscenti. La conseguenza di tutto ciò è nota alle cronache: alcune di quelle dosi hanno causato la morte per overdose di Matteo Ballardini, 19enne trovato senza vita il 12 aprile 2017 all’interno della sua auto lasciata in un parcheggio assolato a Lugo. Per il pm Marilù Gattelli, la tragica morte del giovane ha fatto trapelare una macroscopica falla nel sistema del Sert di Ravenna, tanto da portare a processo non solo Beatrice Marani, la 24enne amica della vittima e già condannata in appello a 4 anni e 10 mesi per avergli ceduto la dose fatale, ma con lei anche la zia 69enne Cosetta Marani, oltre alla psichiatra 65enne Monica Venturini, accusate a vario titolo di peculato e falso.

La psichiatra

La dottoressa - difesa dagli avvocati Sandra Vannucci e Alessandra Marinelli - è stata la prima delle tre imputate a parlare ieri, nel corso del processo davanti al collegio presieduto dal giudice Cecilia Calandra (a latere Antonella Guidomei e Andrea Chibelli). Aveva preso in carico la paziente a inizio ottobre, inserendola nel sistema in forma anonima, con le sole consonanti del cognome e vocali del nome, “MRNEA” perché «era un suo diritto», ha spiegato. Nessuno dei colleghi ne era a conoscenza, solo un accenno al dirigente dell’epoca parlando di un caso delicato. «Presentai la ragazza alle infermiere, dissi loro che la zia aveva la delega per ritirare i farmaci». Per l’accusa, tuttavia, non c’è traccia di un documento ufficiale, se non un foglio mai inserito nella cartella clinica della paziente. Così come nell’archivio non vi è menzione delle 7 visite che l’imputata sostiene di avere svolto nei mesi di “vuoto”. «Non sempre veniva annotato tutto», ha spiegato ieri durante l’udienza. Di certo, la 24enne, dopo un iniziale periodo di miglioramento aveva avuto più libertà: «Ho pensato di lasciarla stabilire, perché si stava allontanando dall’eroina, così mi aveva riferito la zia quando passava a prendere la terapia».

La zia infermiera

La parente della Marani d’altra parte era infermiera, informazione fatta trapelare dalla psichiatra al dirigente del Sert. Ieri (difesa dall’avvocato Fabrizio Capucci) ha spiegato le ragioni della scelta di andare a Ravenna piuttosto che a Lugo: «Era per evitare quelli della sua combriccola. Beatrice non aveva la patente, non era in grado di andarci con altri mezzi perché era uno zombie. Andavo io a ritirare il metadone. Mi presentarono alle infermiere, mi fotocopiarono i documenti, mi bastava dare la sigla per avere le dosi». Farmaci che poi affidava alla giovane, senza però accertarsi che li assumesse: «Stava con il padre, io avevo i miei da badare - ha concluso -. Aveva ripreso ad andare a cavallo, avevo visto un miglioramento ma mi ero illusa».

Lo choc al Sert

Dopo il dramma del 12 aprile 2017, quando sono iniziate le indagini da parte della Squadra mobile, al Sert Ravenna ha cercato di fare luce su una situazione che nessuno, fra i colleghi della dottoressa Venturini, conosceva. «Nella riunione d’equipe parlai per la prima volta della Marani - ha confermato la 65enne in aula -. Da quel giorno in poi l’indicazione è stata di sconsigliare l’anonimato e di predisporre un progetto terapeutico che non si usava più dal 2015». E’ in quella circostanza, ha sottolineato il pm, che «il servizio si rende conto che c’era una paziente mai conosciuta».

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