Calcio D, la nuova vita di Docente a Cattolica

Calcio

Domani spegnerà la bellezza di 37 candeline. Che per uno sportivo di buon livello non sono poche. Eppure sulla sua carta d’identità ha fatto scrivere: attaccante. Perché Emilio Benito Docente da Comiso, Ragusa, Sicilia, è come il buon vino: più passano gli anni e più diventa pregiato. E di lasciare le scarpette al famoso chiodo non ne ha proprio voglia. Tanto che dopo essere sceso in Eccellenza, ha accettato la corte del Cattolica Sg salendo in Serie D.

Docente, molti suoi colleghi, alla sua età e con il suo curriculum, si godono la pensione. A lei chi gliel’ha fatto fare?

«La voglia di rimettermi in gioco. Il gusto della sfida che è da sempre la benzina che mi serve da propellente. Domani compio 37 anni, è vero, ma mi sento ancora un giovincello. Non vedo l’ora di fare la borsa per andare al campo, per stare con i miei compagni, per vivere lo spogliatoio. E sa una cosa? Ancora oggi, dopo tanti campionati sulle spalle, a ogni vigilia mi si stringe lo stomaco. Perché non ho mai vissuto il calcio come un lavoro, come un qualcosa che mi poteva arricchire, ma come un gioco. Il mio gioco preferito. Ecco, quando tutto questo inizierà a pesarmi allora significherà che è arrivato il momento di dire stop».

Perché Cattolica?

«Perché mi hanno cercato con insistenza. Mi hanno fatto sentire importante, ma soprattutto perché il direttore è stato molto sincero: «Ti prendiamo perché hai sempre fatto gol, ma anche perché ci servi per far crescere la squadra con la tua esperienza». Questo è stato l’altro tasto suonato al momento giusto. Come ho detto a D’Agnelli: nella mia carriera non ho mai promesso nulla, se non il massimo impegno. Ogni giorno, in ogni allenamento. Ed è quello che farò e darò per questa maglia, poi se dovessero arrivare anche i gol, tanto meglio».

È vero che quest’estate è stato molto vicino a indossare nuovamente la maglia del Rimini?

«Verissimo. Ci sono state un paio di telefonate ed ero quasi certo di tornare al ‘Neri’. Invece, poi, non ho sentito più nessuno: la società ha fatto altre scelte».

Dica la verità, le è dispiaciuto?

«E a chi non dispiacerebbe non indossare una maglia prestigiosa come quella del Rimini? In più, per me, avrebbe avuto anche un altro significato. Al Rimini e a Rimini, io devo tanto. Sono arrivato qui poco più che ragazzino. Qui sono cresciuto, diventato uomo e padre. Qui ho vissuto gli anni più belli della mia carriera. Il presidente Bellavista, la Serie B, il ‘Neri’ sempre pieno, i successi... Stagioni indimenticabili, macchiate, però, da quella maledetta retrocessione che mi ha lasciato una grande amarezza e una sorta di debito con i tifosi e la città».

In questi ultimi anni, scendendo di categoria, ha avuto modo di giocare con tanti giovani: cosa è cambiato da quando era giovane lei?

«È cambiato tutto. Soprattutto è cambiato il loro modo di approcciarsi ai compagni, al gruppo. Quando sono arrivato in prima squadra io, ero quasi bullizzato dai più grandi. Dovevo raccogliere i palloni a fine allenamento, pulire gli spogliatoi, i bagni, e guai a dare del tu ai più grandi. Oggi i giovani arrivano al campo con il procuratore, vestiti di tutto punto, alla prima panchina iniziano a mugugnare e hanno atteggiamenti da prime donne. Stanno a sentire il giusto e soprattutto una volta tornati a casa si dimenticano di tutto perché hanno mille distrazioni. Sia chiaro, non tutti. Però non è neppure colpa loro».

Ossia?

«Il regolamento. Quando ero giovane io, giocavo se lo meritavo, altrimenti niente. Oggi ci sono gli under che devono giocare obbligatoriamente. Poi, quando non servi più perché diventi over, ti ritrovi a spasso».

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