Davide Ballardini: «Il mio calcio, dai vivai alla Serie A»

Guardando la parte sinistra della classifica di Serie A, i numeri dicono che il migliore allenatore del campionato è Antonio Conte con l’Inter capolista. Guardando la parte destra della classifica, i numeri dicono che il migliore allenatore del campionato è Davide Ballardini da Ravenna, nel pieno di un capolavoro in rimonta da quando è subentrato alla guida del Genoa.

Ballardini, nel suo curriculum c’è un percorso iniziato nel settore giovanile, poi Serie C, Serie B e Serie A. C’è un momento della sua settimana di lavoro in cui sente di più il beneficio di questa lunga gavetta?

«Il mio è un percorso che mi porto dietro sempre. Quello che ho fatto con i giovani o in C è costantemente con me. Io vivo con il mio passato, perché mi serve per fare bene il mio mestiere ora e per cercare di farlo meglio domani. Parto dai rapporti con le persone, dalle idee, dal quotidiano... In ogni momento della mia giornata, mi porto dietro ciò che ho fatto nei settori giovanili».

Ci sono poi allenatori che hanno iniziato subito in A: da Roberto Mancini a Vincenzo Montella fino al caso più recente di Andrea Pirlo. Quando sfida tecnici con un curriculum opposto al suo, scatta uno stimolo in più in partita?

«No, per me no. Ognuno ha il suo percorso, io ho fatto il mio e sono ben contento delle mie esperienze nei settori giovanili di Cesena, Bologna, Ravenna, Parma, Milan. E quando ci ripenso, sono davvero grato a chi mi ha dato la possibilità di crescere. Altri hanno fatto il loro cammino, come è normale».

Nei giorni scorsi, Massimiliano Allegri su Sky ha detto: «I giocatori sono diventati uno strumento per fare vedere che l’allenatore è bravo». Ovvero: prima si cercano i complimenti per il bel gioco e poi viene il risultato.

«Per me un allenatore deve avere delle idee chiare, saperle trasmettere e coinvolgere i giocatori. I giocatori devono sentirsi liberi di elaborare i principi che l’allenatore insegna. È fondamentale che i giocatori siano liberi di esprimersi all’interno di una organizzazione. Io in una squadra cerco questo e con la prestazione spero arrivino i risultati».

È mai stato d’accordo con un 5 in pagella preso su un giornale?

«Certo che sì. Per me l’allenatore è il primo a sapere degli errori che ha commesso. Poi a volte i giornalisti, almeno quelli che hanno competenza e sensibilità, capiscono che l’allenatore ha fatto degli errori. Parlo della partita ovviamente, perché poi nelle scelte della formazione ci sono valutazioni che il giornalista magari non può conoscere perché non può vivere la settimana di lavoro in presa diretta. Ma su una mossa tattica o su un cambio, l’allenatore sa che poteva fare meglio e quindi il 5 se lo assegna da solo a fine gara».

La costruzione dal basso: una moda o una necessità?

«Nessuna delle due. Per me è giusto provare a costruire dal portiere, poi è chiaro che se vedi che gli altri vengono a chiuderti bene e sono molto aggressivi, in quel caso vai a sfruttare una parità numerica con gli attaccanti e vai ad accompagnare con i centrocampisti e gli esterni. Io dico che tu devi allenarti a costruire dal portiere, poi è chiaro che se c’è una aggressione degli avversari, allora “giochi sopra” agli attaccanti e là c’è una parità numerica e c’è tanto spazio alle spalle dei difensori avversari. Non è né una moda, né una esigenza: è una strategia in più».

Frase tipica del pallone italiano, dagli allenatori ai giornalisti: “Nel calcio non si inventa niente”.

«Non è così. Anche dopo tanti anni, per me la curiosità è fondamentale nel mio percorso. Quando sono a casa e non lavoro, vado in giro per l’Europa a guardare allenatori di altre nazioni. Il calcio cambia, si evolve, si arricchisce in ogni momento di cose diverse e nuove. Poi è chiaro che i principi restano quelli, ma il modo di raggiungere quei principi e le varianti che ci possono essere sono sempre in evoluzione».

Lei più volte ha definito il suo Genoa “una squadra solida e seria”. È lo specchio di come vuole essere lei come persona nel suo posto di lavoro?

«Sì. Mi piacciono l’ordine, la serietà, la compattezza, la chiarezza, il coinvolgimento di tutti, la qualità del gioco. Se riesco a trasmettere quello che sono come persona e le mie idee di gioco, sono contento. Per me è un obbligo e un dovere valutare le qualità dei giocatori, la squadra ha il dovere di esaltare le qualità di ognuno».

In un ambiente competitivo come il vostro, si riesce ad essere amici tra allenatori?

«Beh, con alcuni sì, con altri invece direi di no».

Quanti giocatori del suo Genoa faranno l’allenatore in futuro?

«Ce ne sono diversi. Ho una squadra con tanti giocatori che hanno più o meno 30 anni e sono ragazzi seri, professionali e in più capiscono di calcio».

Se questi ragazzi le chiederanno un consiglio su come allenare, quale sarà il primo che darà?

«Di essere curiosi. La passione ti porta ad essere curioso e a coltivare le tue idee. In più, col tempo ho imparato che sapere osservare e sapere ascoltare sono qualità importanti. Se parli molto, vuol dire che ascolti poco; se sei preso solo da quello che hai nella tua testa, magari trascuri aspetti che sono fondamentali. Curiosità, idee, entusiasmo ascolto, osservazione: sono principi che un allenatore deve sempre tenere a mente».

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