Bologna, il Pasolini di Annoni e Casi a Teatri di Vita

Nel programma per i 100 anni di Pasolini, anche la notte brava dei teddy boys milanesi nella sceneggiatura dal titolo La nebbiosa scritta nel 1959, poco prima dell’esordio registico in “Accattone”. Storia divenuta spettacolo teatrale, scritto da Paolo Trotti (che ne è anche il regista) e Stefano Annoni, in scena con il giovane gruppo milanese Linguaggicreativi, dall’11 al 13 marzo ai Teatri di Vita (a Bologna in via Emilia Ponente 485, tel. 333 4666333).

Annoni, quali particolarità mostra questa ripresa teatrale?

«Si può definire una sorta di “Arancia meccanica” pasoliniana, intorno a cui gira una sorta di giallo. Dopo vari passaggi la sceneggiatura (poi pubblicata in volume dal Saggiatore) divenne il film “Milano nera”, un b-movie da cui Pasolini si dissociò. Milano non era una città da lui particolarmente amata, ma divenne sfondo del suo interesse per gli ultimi, i disperati. Singolarmente per lui era una storia d’azione, senza un filo conduttore, ma i personaggi e le situazioni appaiono credibili così come teatralmente efficaci. Abbiamo perciò voluto dare un ritmo incalzante all’azione e la scena del night club è divenuta quella di un burlesque club così da offrire un ulteriore elemento di provocazione per chi ritiene Pasolini una sorta di “intoccabile”».

In che misura vi appare tutto il successivo universo pasoliniano?

«C’è tutto del Pasolini giovane che descrive Milano come «un panorama crudele di file di luci e palazzi di vetro, simili a globi di chiarore». Fece un grande lavoro sul linguaggio di questi ragazzi, spesso figli della borghesia, e dai comportamenti che appaiono dettati dalla noia. Li andava a cercare, parlando con loro. Sentiamo tutta l’attualità dettata da temi come la crescita nelle periferie, la sessualità, l’assenza del mondo degli adulti. Per questo abbiamo fatto diverse recite per le scuole, chiamati dai professori a parlare ai ragazzi. Nel contempo è uno spettacolo dal linguaggio semplice, comprensibile a tutti. È quello che volevamo proporre dopo due anni di chiusura. È fondamentale poter riprendere il dialogo con il pubblico e non dover parlare solo tra noi».

Stefano Casi, direttore di Teatri di Vita, ha posto in rilievo nel saggio critico I teatri di Pasolini (Ubulibri) elementi come la centralità del corpo e dei rapporto con il pubblico, che per Pasolini racchiudevano il senso stesso del fare teatro. Centrale in questa concezione l’esempio dell’allestimento di “Orgia” ai Teatri di Vita nel 2004 con la regia di Andrea Adriatico.

«Molto spesso – dice Casi – chi affronta il teatro di Pasolini si ferma alle dichiarazioni sulla centralità assoluta della parola e su un teatro che stia solo nella mente dello spettatore. Ma al di là di certe dichiarazioni, spesso anche provocatorie, si può riscontrare come il corpo sia strettamente collegato alla parola. L’esempio di Adriatico che porta in primo piano i corpi nudi in “Orgia” è particolarmente significativo, così come gli spettacoli di Latella o, negli ultimi anni, dei giovani Condemi e Lanera. Proprio Adriatico obbliga gli spettatori a una prossimità pericolosa con gli attori e i loro corpi, a pochi centimetri, sperimentando un aspetto raramente raccolto dai registi, e cioè la rituale e quasi orgiastica (come suggerisce il titolo stesso) delle tragedie di Pasolini, che insistono sul sesso, sul sangue, sul sogno, sul sacro). Nel teatro Pasolini non parla solo alla testa di chi ascolta, ma anche al suo corpo e al suo inconscio, cercando non solo un dialogo intellettuale, ma anche una folgorazione emotiva, irrazionale, sconvolgente. Una modalità di fruizione che coinvolge non solo la razionalità ma anche l’irrazionalità, che è poi il senso forte della tragedia classica e di quella reinventata da Pasolini».

Perché ha definito il teatro di Pasolini «disperato» tra sadismo e contestazione?

«Il teatro di Pasolini parla alla testa dello spettatore e si pone come teatro a suo modo politico (nel senso non brechtiano, quindi un teatro che alimenta lo spirito critico delle coscienze di fronte alla realtà), ma lo fa chiamando a raccolta gli strumenti del perturbante, del sacro, dell’indicibile, dell’orrore. E qui, credo, sta la sua originalità e la sua potenza, capace tutt’oggi di suggestionare registi, attori e spettatori».

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