Bocci e Spada a Forlì per il loro libro sul dramma che li colpì

A Forlì non arriva nei panni dello scanzonato Mimì Augello, Cesare Bocci, ospite domani (ore 21) del “Festival Caterina Sforza. L’anticonformista”. All’Arena San Domenico, meteo permettendo, con la direttrice artistica Eleonora Mazzoni, Antonella Questa e Daniele Mencarelli, il popolarissimo attore sarà infatti con la moglie Daniela Spada, insieme alla quale ha scritto “Pesce d’aprile. Lo scherzo del destino che ci ha reso più forti”.

Dopo aver appena partorito la figlia Mia, il 1° aprile 2000, Daniela Spada subì un ictus e finì in coma per venti giorni. Quando si risvegliò, era una donna diversa, e la sua vita sembrava al capolinea.

Bocci, lei e sua moglie scrivendo avete rivissuto quegli anni di sofferenza.

«Ed è stato un modo per conoscerci reciprocamente. Pensavamo infatti di sapere tutto l’uno dell’altra, invece quando 16 anni dopo l’accaduto abbiamo messo mano a questa storia di resilienza, di coraggio e di forza che tanti ci incitavano a scrivere, ci siamo accorti che le due voci, la mia e quella di Daniela, non sempre convergevano».

In che senso?

«In quegli anni vivevamo sempre insieme, ma in realtà non si riesce mai a entrare nelle paure, nella solitudine, anche nella voglia di riscatto di un altro. Così, durante la stesura del libro, io ho conosciuto una donna forte e lei ha capito il senso di solitudine e di abbandono e le paure che avevo sperimentato io».

È una storia drammatica, ma con un respiro di speranza che avete scelto di condividere.

«Il nostro messaggio è chiaro: può capitare a tutti di essere travolti dalla vita, ma, come è stato per noi, si può sempre trovare qualcosa che fa girare l’angolo e ti fa capire che c’è ancora tanto da vivere e che non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto».

Parliamo di una salvezza laica.

«Io e Daniela siamo profondamente cristiani, credo che l’essere umano abbia sempre in sé qualcosa di buono, anche se in questo momento forse si fa un po’ fatica a crederci. Eppure ho fiducia nell’uomo, e nei valori dell’aiuto e del rispetto».

Chiaramente, nel libro appare anche vostra figlia Mia.

«Le avevamo chiesto infatti se voleva partecipare alla scrittura, ma dopo averci pensato per un po’ ha preferito non farlo. Nel libro allora parliamo della visione che un genitore ha del figlio, però non sappiamo che traumi si porti dentro lei, a cui sono mancati quel rapporto carnale e fortissimo con la mamma, l’allattamento, l’accudimento dei primi mesi di vita che Daniela ha saltato. E quando poi con uno sforzo enorme ha tentato di avvicinarsi a Mia, è stata rifiutata. È stato allora che abbiamo chiesto aiuto. I medici ci hanno fatto riflettere sul fatto che la bambina stava facendo il suo “lavoro”, e che Daniela doveva restare e farle capire il suo amore. Si è trattato però di un distacco forte, causato anche da errori miei».

Errori, dice?

«Ma sì, io tentavo di sostituirmi alla madre che non riusciva a cambiare il pannolino o a dare il biberon. In realtà facevo del male a tutti e tre, a Daniela perché sanzionavo la sua incapacità, a me stesso caricandomi di cose sbagliate e allontanavo ulteriormente la bambina dalla sua mamma. Ma la situazione ci aveva travolti… Ci ha aiutati ricorrere a dei medici, a degli psicologi, senza vergogna».

Sarà stato difficile per lei continuare ad andare in scena.

«L’evento era successo da un anno e mi chiamarono per un lavoro. Io mi sentii quasi… offeso! Fu proprio Daniela invece a spronarmi, e a dirmi con la sua voce tremante “Lasciami qui, torna a lavorare!”. Lo feci, e mi sentii subito bene, perché anche in quel modo stavo aiutando la mia famiglia. Amo questo lavoro, ed è vero che quando si entra nel personaggio si lasciano alle spalle i problemi. Ma questo non succede solo agli attori: giocano l’esperienza, certo, la sensibilità, ma in ogni mestiere c’è chi è bravo e chi meno bravo a gestire il rapporto con chi ha di fronte. Nell’arte, se hai quella dote, se la metti al servizio del tuo lavoro, allora capita di fare quella bella scena, quel bel monologo, e hai la soddisfazione di un lavoro fatto: e fatto bene».

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