«La birra artigianale non è una moda. Ha trovato una propria via, che evolve»

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RIMINI. Eugenio Signorini cura per Slow Food editore la Guida Birre d’Italia, in questi giorni è anche lui a Beer&Food Attraction a Rimini. In linea con la filosofia dell’associazione della chiocciola il suo campo è quello delle produzioni artigianali, ma ama definirsi un «non talebano». Quel conta è sapere cosa si beve, e perché il consumatore sia consapevole qualcuno lo deve informare. Anche nel corso del 2018 si è assisto allo sviluppo del comparto delle birre artigianali legato ai microbirrifici, che coinvolgono soprattutto i giovani. Attualmente si stima (fonte Assobirra e Unionbirrai) che in Italia operino 1008 strutture per una produzione di 504mila ettolitri, in crescita del 4,3% sul 2017. Si tratta di 768 birrifici artigianali e 240 brew pub, ossia pub con produzione di birra in loco. La loro quota di mercato è pari al 3,1%.
Partiamo dal fatto che la birra artigianale ha dimostrato di non essere solo una moda.
«Non è una moda. La cosa interessante è che è un movimento nato dal nulla nel 1995 e che è cresciuto costantemente. Sono aumentati anche i consumi, anche se restiamo uno degli ultimi paesi per questo in Europa. Da anni dunque si aspettava un calo che però non c’è stato. Magari il ritmo è rallentato rispetto all’exploit iniziale, ma i piccoli birrifici continuano ad aprire e produrre».
Qual è la peculiarità della produzione di birra artigianale italiana?
«La cosa interessante è che la birra italiana ha cercato una propria via. All’inizio si puntava a un’impronta identitaria, ma si finiva per replicare stili internazionali. Oggi la maggior parte dei birrifici ha una propria identità e soprattutto ha intrapreso la via dell’equilibrio. Il lavoro interessante che hanno fatto i birrifici artigianali, poi, è stato quello di utilizzare materie prime locali non in maniera fine a se stessa, ma per portare un vero cambiamento nelle dinamiche agricole del proprio territorio. Oggi sempre più birrifici cercano di produrre il proprio malto, o anche il luppolo. Penso anche a esempi emiliano romagnoli come l’Italian hops company del modenese Eugenio Pellicciari, il primo a compiere una ricerca sui luppoli italiani e a lavorare per rispondere a un mercato ampio e non solo locale. È una prospettiva nuova, un concreto investimento sui territori, strutturato e ragionato».
A livello di stili, quai sono le tendenze della produzione?
«L’orientamento che si vede negli ultimi anni è quello di proporre un volume alcolico sempre più basso, 3,5/4 gradi, e dopo un lungo periodo in cui sembrava che fosse indispensabile stupire con birre strane a tutti i costi, c’è un ritorno alla semplicità e alla piacevolezza come valore. La cosa va incontro anche al consumatore che è più curioso a livello diffuso, magari non è nemmeno un consumatore abituale, ma sempre più spesso è alla ricerca di qualcosa di nuovo e diverso che non sia la birra da scaffale del supermercato».
Oggi molti consumatori hanno accresciuto la propria consapevolezza, vale anche sul fronte birra? A che punto siamo?
«Il prodotto birra artigianale ha ancora bisogno di essere spiegato. In un mondo produttivo che è andato complicandosi, anche pervia di alcuni grandi marchi che strizzando l’occhio all’aggettivo artigianale hanno cerato confusione. La nostra normativa non permette mezze vie: la birra o è artigianale, non pastorizzata, o è industriale. Oggi non c’è bisogno di fare la rivoluzione, ma di consolidare qualità e sostenibilità economica e ambientale. Quel 3% di consumatori di birra artigianale può aumentare e ciò è possibile attraverso la consapevolezza di quello che si beve, poi ciascuno sceglie quello che preferisce».

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