Beppe Fenoglio, un classico del Novecento

A Beppe Fenoglio (Alba 1 marzo 1922 – 2 febbraio 1963), nel centenario della nascita viene giustamente riconosciuto il ruolo di classico del nostro Novecento, ma la sua vicenda è stata irta di ostacoli e clamorosi equivoci sorti già intorno al suo libro di esordio, che hanno condizionato lo sviluppo della sua opera e il giudizio a cui per lungo tempo sarebbe stata sottoposta.

Al termine della guerra e della lotta partigiana, a cui aveva aderito con dedizione assoluta, Fenoglio si trova alle prese coi problemi comuni a molti ex combattenti. Si risolve infine ad abbandonare l’università, accetta un modesto lavoro fisso e punta tutto sulla propria vocazione letteraria. Scrive sette racconti sulla guerra partigiana e li propone a diversi editori, ma i suoi tentativi risultano infruttuosi. Decide allora di cambiare rotta con La paga del sabato, un romanzo il cui protagonista è un ex partigiano che presenta chiare analogie con l’autore, e lo manda all’Einaudi, per cui Elio Vittorini dirige la collana “I gettoni”. Questi però non è convinto del testo. Fenoglio ripropone allora i racconti, che hanno esito migliore, e nel giugno del ’52 esce il volume I ventitre giorni della città di Alba.

Il rapporto con Vittorini però rimane difficile, e peggiora ulteriormente quando l’autore presenta a Einaudi La malora, il più compiuto esito della sua narrativa “langhigiana”. Vittorini, che ha riserve anche su questo testo, le esprime in alcune considerazioni critiche e polemiche nel consueto risvolto che egli stesso redige per i suoi “Gettoni”. E Fenoglio la prende malissimo, come una frustata in faccia, a quanto riferiscono i suoi amici.

Le critiche da sinistra

Ma intanto deve fare i conti con una seconda e ancor più amara questione. Mentre I ventritre giorni (scritto così in originale, senza accento) sono stati accolti con favore da illustri critici, come Carlo Bo, Geno Pampaloni, Gianfranco Contini, di segno opposto è la critica di matrice marxista. Fra agosto e ottobre 1952, sulle varie edizioni de “L’Unità” escono quattro articoli, in una successione così serrata da far pensare a un fuoco di fila.

«Gretta acredine filistea», «rappresentazione qualunquista», «Un brutto capitolo nella letteratura della Resistenza»: di questo tenore sono i giudizi espressi, che a rileggerli oggi lasciano senza parole. Ma le ragioni di questo clamoroso equivoco sono insite proprio nell’originalità dello sguardo che l’autore rivolge alla lotta partigiana. Fenoglio si stacca infatti dagli stereotipi vigenti, elude qualunque forma di mitizzazione e di retorica e rappresenta la Resistenza con uno spietato realismo, con una prosa scabra e in apparenza distaccata, che risulta pregnante e avvincente come poche. Per quanto sia giusta quella contro il nazifascismo, si tratta comunque di una sporca guerra, come lo sono tutte. I partigiani non appaiono perciò sempre buoni e giusti e in certe circostanze possono rivelare viltà, crudeltà, e debolezza. Senza mai dubitare della causa per la quale si combatte, Fenoglio sa guardare nel destino dei vinti come in quello dei vincitori, senza esplicitare chiavi interpretative o giudizi morali di sorta.

Oggi però non avrebbe senso puntare il dito contro i miopi detrattori del ’52, che anzi rendono ancora più merito all’autore per la sua capacità di rappresentare eventi in cui pure era schierato e partecipe, con un’oggettività a cui sarebbero giunti decenni dopo anche gli storici, come Claudio Pavone che assumerà le sue pagine come fonte fra le più attendibili.

Isolamento e sfiducia

Questo accadrà però solo in seguito, mentre nel ’56 Fenoglio vive una dolorosa condizione di isolamento e sfiducia. Lavora a quello che lui stesso definisce un «libro grosso», cioè la storia del partigiano Johnny, ma le delusioni precedenti lo fanno dubitare di avere il passo del romanziere, e dopo varie traversie ne pubblica solo la prima parte nel ’59 col titolo Primavera di bellezza . Poi si dedica a vari progetti che però rimangono incompiuti anche a causa della malattia che lo colpisce di lì a poco. Le maggiori opere usciranno perciò solo postume, da Una questione privata a Il partigiano Johnny.

Sottovalutato poi consacrato

Ma i suoi problemi non sono ancora finiti. Tra le conseguenze della sottovalutazione di cui è oggetto, ad Alba e anche nell’ambito privato, c’è che il suo archivio rimane dimenticato in una soffitta per finire poi gettato al fiume, perdita gravissima se pensiamo che dal casuale ritrovamento di due taccuini riemergeranno importanti testi inediti, dati alle stampe nel ’94 col titolo Appunti partigiani .

Solo nei decenni più recenti Fenoglio ha ricevuto la meritata consacrazione. E fra le molte edizioni va segnalata quella di Gabriele Pedullà, che con Il libro di Johnny ha ricostruito il suo più rilevante progetto rimasto incompiuto. È un parziale risarcimento per questo autore, scomodo perché troppo in anticipo sui tempi e tardivamente riconosciuto come il massimo narratore della Resistenza, evento centrale della sua vita al punto da volere due sole parole incise sulla propria lapide: «partigiano e scrittore», e che la prima fosse anteposta alla seconda.

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