Baseball, l'arbitro Serafini e una passione che dura da 40 anni

Sarà per quel nome particolare, ma da 40 anni, cioè da quando ha iniziato ad arbitrare, nel mondo del baseball è conosciuto molto più come Iglis che il signor Serafini. Già, 40 anni con maschera e tutto l’equipaggiamento da arbitro, da festeggiare quest’anno in un 2022 che a novembre lo vedrà tagliare anche il traguardo delle 60 candeline.

Iglis, cominciamo: ha mai giocato a baseball?

«Sì, certo, mi sono avvicinato al baseball da adolescente, sono arrivato fino alla serie B, ho giocato sempre a Riccione, il mio ruolo era quello di esterno».

Da giocatore ha mai discusso con un arbitro?

«No. Anzi, ricordo che eravamo in tre a dover tener fermo un nostro compagno che si stava scagliando verso un arbitro».

Perché ha iniziato ad arbitrare?

«Erano i tempi della presidenza Beneck in Italia, il consiglio federale obbligò le società ad avere un arbitro per coprire l’attività giovanile. Il tempo per allenarmi come giocatore era poco, ma il baseball mi piaceva tanto, non volevo uscire del tutto da questo ambiente, così decisi di iniziare il corso da arbitro, ho fatto i primi tre anni da aspirante poi ho iniziato la carriera vera e propria».

E perché continua dopo 40 anni?

«Per passione, tanta passione, il baseball non è scontato, mai banale e negli anni questa passione si è anche piacevolmente modificata visto che ho iniziato ad arbitrare le partite del baseball per ciechi, un mondo tutto da scoprire dovrà c’è tanto da imparare».

Le piace di più dirigere le partite dei giovani o degli adulti?

«Quelle dei ragazzi, senza dubbio, diciamo che negli ultimi dieci anni ho instaurato anche un rapporto meraviglioso con i giovani».

Si riesce a godere una partita quando è lì accovacciato dietro il piatto?

«Molte volte ci riesco, anche perchè inizio le partite dicendo ai catcher ‘dai ragazzi, divertiamoci’. Per questo, soprattutto i più giovani non mi vedono come un giudice severo. Aggiunto questo: a volte sento i manager che soprattutto sulla situazione di due strike a carico, dicono al battitore ‘non far decidere l’arbitro’. Beh, l’arbitro non è qui per decidere, ma per giudicare e ogni situazione nel baseball nasce dal lancio, la palla che arriva verso il battitore, quindi anche verso di me e la decisione deve essere immediata, senza esitazioni».

Si ricorda la sua prima partita arbitrata?

«Certo, ero aspirante arbitro, era un Rimini-Pesaro categoria Under 12 e c’era un giovanissimo Andrea Evangelisti che lanciava missili dalla pedana e sparava legnate contro il muro».

Il massimo livello raggiunto?

«In Italia la serie A1 (stiamo parlando di oltre 600 partite, ndr), poi al Mondiale in Italia nel 1998 ho fatto l’arbitro di base, esperienza favolosa. Ho arbitrato l’Europeo del 1999 e anche la finale del Mondiale Universitario a Messina nel 2002. All’estero sono andato a Cuba e poi due volte in Repubblica Ceca per gli Europei Under 12 e 15».

Domanda classica per un arbitro: ha mai preso qualche schiaffone in giro per i diamanti?

«No, ma una bottigliata per difendere un collega durante una garasette di play-off tra Nettuno e Grosseto ai tempi d’oro (cioè la partita più calda in assoluto, ndr)».

Il campo più tosto?

«Direi sicuramente Nettuno, soprattutto perché c’è una competenza tecnica molto alta, con tutte le conseguenze del caso. Invece il campo dove tornerei sempre volentieri è quello di Ronchi dei Legionari, lì mi sento veramente a mio agio».

Come si regola nel rapporto con i giocatori, soprattutto con quelli che conosce da tempo?

«Con il distacco che deriva dal mio ruolo. Io rappresento la Federazione baseball, il comitato nazionale arbitri, poi è logico che fuori dal campo non disdegno un piacevole confronto».

Il lancio più difficile da giudicare?

«Direi gli effetti, cioè quei lanci che veramente bisogna attendere fino in fondo, soprattutto da parte di quei pitcher che muovono parecchio la palla. La dritta, anche quelle molto veloci, sono più semplici da giudicare. Ricordo un lanciatore, Danny Newman (soprannominato “cavallo pazzo”, ndr), era uno spettacolo vederlo lanciare, ma sinceramente non sapevo mai cosa potesse arrivare a casa base, le sue traiettorie erano difficili da giudicare per un battitore e di conseguenza per me».

Un giudizio autocritico?

«Ho fatto sempre quello che mi è stato chiesto, ho affrontato la carriera da arbitro pensando quotidianamente che ogni partita fosse un insegnamento e alla fine di tutto è un ruolo che mi piace ricoprire adesso come quando ho iniziato».

Torniamo all’inizio, ma quel nome... Iglis?

«È un nome storpiato. Mia mamma era appassionata del film “Cime Tempestose” dove il personaggio principale era Heathcliff, ma fui segnato all’anagrafe come Iglis. Siamo in tre a Riccione e un quarto si chiama Iglif».

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