Bagnacavallo celebra i 100 anni di Giulio Ruffini

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È in corso fino al 2 maggio 2021 nel Museo Civico delle Cappuccine a Bagnacavallo la mostra Giulio Ruffini. L’epica popolare e l’inganno della modernità 1950-1967 per commemorarne il centenario della nascita.

La mostra è ideata e curata da Diego Galizzi con la collaborazione del qualificato comitato scientifico costituito da Paola Babini, Giovanni Barberini, Annamaria Bernucci, Franco Bertoni, Beatrice Buscaroli, e Paolo Trioschi. Il bel catalogo dell’editore Longo di Ravenna contiene saggi di Diego Galizzi e Giuseppe Masetti con la prefazione di Orlando Piraccini.

L’arte e la Resistenza

Giulio Ruffini (Villanova di Bagnacavallo 1921 – Ravenna 2011) è un protagonista formidabile della scena artistica regionale del Novecento. Dopo la Scuola di arti e mestieri di Cotignola, dove conosce Mattia Moreni del quale poi diventerà amico, frequenta l’Accademia di belle arti di Ravenna e dal 1957 al 1982 insegna al Liceo artistico di Ravenna. Presente nelle principali rassegne nazionali e internazionali, è incluso da Carlo Ludovico Ragghianti tra i “60 maestri del prossimo trentennio” in mostra a Prato nel 1955.

L’esposizione alle Cappuccine si sviluppa in otto sezioni che scandiscono i tempi e temi trattati dall’artista. Si parte dagli esordi, i ritratti e le nature morte come quella con pane del 1953, nitida e precisa, esposta l’anno successivo alla Biennale di Venezia.

A seguire la lotta e la Resistenza, gli anni del Neorealismo. Di grande impatto tragico “Fucilazione (anche i bambini)” del 1955 dalla collezione Luca Zambrini di Ravenna, una raccolta, voluta da Maria e Primo Zambrini, per ricordare il figlio scomparso nel 1995, esposta a cura di Orlando Piraccini e Paolo Trioschi a Palazzo Rasponi dalle Teste a Ravenna nel 2017.

La terza sezione è dedicata a un tema caro a Ruffini dove rivela la sua grandiosità e tutto l’amore che lo lega alla sua terra: “Braccianti e donne forti. Il sudore della Romagna”. Emblematico “Due braccianti che si dissetano” eseguito nel biennio 1953-54 ed esposto a IX Premio Suzzara “Lavoro e lavoratori nell’arte” del 1956.

A seguire: “Nuove solitudini urbane” dove risaltano i disegni e i quadri dedicati ai tetti di Ravenna. Poi “L’allegoria della sofferenza: Crocefissioni e macelli” degli anni Sessanta dove esplode l’espressionismo impulsivo, libero dai vincoli neorealistici. La sezione 6 “Ansie di rinnovamento. La grande marea dell’informale” fa riferimento ai primi anni 60 quando Ruffini prova ad allontanarsi dal figurativo senza riuscirci con completezza perché la figura in qualche maniera emerge sempre rendendosi riconoscibile.

Tra pop art e “optical”

Negli anni successivi c’è il ritorno al figurazione, tra Pop Art e mode “optical”, in un contesto grafico fatto di linee, inserti e colori piani che richiamano la cartellonistica pubblicitaria. Il linguaggio cambia ancora, ma non del tutto, nell’ultima sezione: “La dissennata corsa della civiltà industriale”, dove Ruffini spezza e scompone l’immagine per accumularla in scene catastrofiche alle quali aggiunge numeri, lettere e segnali stradali nella loro simbologia quotidiana. Una strada percorsa in quasi vent’anni di instancabile operosità artistica, guidata solo dalla necessità interiore di seguire l’istinto senza soffermarsi e compiacersi di quanto fatto. Un’ansia che emerge dalle continue mutazioni stilistiche e tematiche, gli elementi costanti della sua prodigiosa produzione negli anni successivi, fino alla morte.

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