A tre anni dall’inizio di una cavalcata pandemica che ha falcidiato centinaia di migliaia di persone, nel solo territorio imolese le vittime sono state quasi 500: era infatti il 24 febbraio 2020 quando si decise di chiudere le scuole per cercare di contenere e limitare i contagi, si può dire che oggi il Covid sia sotto controllo. Una pandemia che ha creato conseguenze violente sulle biografie e sugli affetti di persone e famiglie, ma che ha lasciato strascichi importanti anche sul sistema sanitario. In primis sugli operatori e sui servizi dell’ospedale dell’Ausl imolese.
Lo conferma il direttore generale Andrea Rossi che sottolinea come «sia stata un’esperienza fortemente impattante ma anche altamente formativa, che ci ha permesso comunque e in brevissimo tempo di proseguire nel dare risposte efficienti ed efficaci».
A distanza di tre anni dall’inizio della pandemia si può quindi definire sotto controllo la situazione?
«Oggi siamo arrivati, grazie a una serie di fattori tra cui sicuramente i vaccini, che nel nostro territorio ha portato oltre l’86% delle persone a finire il ciclo, a ridurre l’incidenza più drastica, quindi la morte, rendendo l’infezione in uscita dalla fase epidemica. Siamo ormai in una situazione di convivenza endemica, con qualche ricovero o persona non vaccinata che finisce in terapia intensiva, ma possiamo guardare con relativo ottimismo al futuro».
A chi ancora oggi definisce la pandemia una esagerazione sanitaria, cosa risponde?
«Che non è affatto così e anzi è stata una bella botta. Per significare l’impatto evidenzierei in primis i 484 morti nei dieci comuni del Circondario. Questo ci dice che per due anni il Covid è stato la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari. Non era quindi una influenza. Per non parlare di ricoveri, di terapie intensive strapiene e soprattutto delle conseguenze che ancora oggi i pazienti colpiti possono avere, il cosiddetto Long Covid».
Come ha dovuto affrontare questa emergenza inattesa l’organizzazione dell’azienda e dei servizi?
«Sicuramente prendendo provvedimenti anche dolorosi e radicali. Anche fortemente limitanti con conseguenze, ovvie, nei confronti delle quantità delle prestazioni erogate. Una riorganizzazione che è partita da una non conoscenza del problema, nella fase iniziale, a una risoluzione efficace che si è protratta, in modo efficace, nel corso del biennio pandemico».
Quali sono le ferite lasciate ancora aperte dal Covid?
«Sicuramente dobbiamo recuperare, anche se lo stiamo facendo celermente, le prestazioni. Tra tutte quelle chirurgiche non d’urgenza e non oncologiche ma comunque programmate. In questo ambito abbiamo dimezzato la produzione chirurgica e oggi stiamo velocemente riportando alla normalità la situazione. Inoltre non è da sottovalutare la stanchezza degli operatori sanitari che per due anni hanno tirato la carretta e si sono rimboccati le maniche. Per questo adesso la risposta politica a livello governativo, forse, dovrebbe essere un po’ più attenta ai bisogni di una sanità, e intendo soprattutto in ambito di risorse a disposizione, che ha dimostrato, tutto il suo valore».