Árpád Weisz, storia di calcio, morte e discriminazioni

RIMINI. Il pallone a volte non è rotondo, non gira uguale per tutti: specie se sei ebreo e hai la sfortuna di vivere sotto il nazismo.
Martedì 3 settembre dalle ore 21 sarà alla colonia Bolognese Matteo Marani, volto noto della tv, soprattutto per gli sportivi, in quanto vicedirettore di Sky Sport. Il giornalista viene a parlare del suo libro “Árpád Weisz, dallo scudetto ad Auschwitz. Quando la discriminazione entra in campo”, biografia scritta nel 2007 su un allenatore ebreo che ha fatto la storia del calcio italiano e che purtroppo, per le sue origini semite, venne ucciso dai nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz.

Nato a Solt in Ungheria nel 1896 da genitori ebrei, Árpád Weisz giunse in Italia come calciatore e diventerà uno dei più grandi allenatori della sua epoca e di ogni tempo. Al Bologna, tra il 1935 e il 1938, vince due volte il campionato, prima di essere vittima delle leggi razziali e di dover fuggire dall’Italia. Ma, rifugiatosi nei Paesi Bassi, con l’occupazione tedesca degli stessi finì per essere deportato e spedito nelle camere a gas.


Matteo Marani, classe 1970, laureato in Storia, ha collaborato con Il Messaggero, il Corriere dello Sport/Stadio e Il Sole 24 Ore. Dal 2008 al 2016 è stato direttore del Guerin Sportivo. Tiene corsi sul linguaggio del giornalismo alla Iulm di Milano e all’Università di Bologna.
Il suo libro ha vinto numerosi premi e ormai da oltre 10 anni gira l’Italia per parlarne in pubblico.
Marani, il suo libro è sempre “di moda”: per quale motivo? Forse c’è bisogno di strumenti antirazzisti in epoca di razzismo rimontante?
«Sì, perché è una storia universale, destinata a non scadere mai nella sua forma di messaggio: una pagina tremenda della storia, legata allo sport e al calcio, quindi con una forte potenza evocativa, e la capacità di tenere viva la memoria, per sensibilizzare le coscienze, specie quelle dei giovani».
Weisz è stato un precursore: fu tra i primi a introdurre il ritiro delle squadre, la dieta, la cura del settore giovanile, oltre all’adozione del modulo WM, il famoso “sistema”. Oggi si parlerebbe di lui come un «very very special one».
«C’è una ricorrenza singolare in questi giorni: il 90° della serie A, che nasceva nel 1929/30, quando lui vinse il primo scudetto con l’Ambrosiana Inter. E tutt’ora è il più giovane tecnico ad aver vinto un titolo, a soli 34 anni. Poi sappiamo che ne vinse altri due con il Bologna; e ne avrebbe vinto anche un quarto nel 1938/39, se non fosse stato allontanato per le leggi razziali, quando il Bologna rivinse. Ma aldilà dei risultati, lui ha anche redatto il manuale del gioco del calcio nel 1930, ha introdotto la specificità dei ruoli, come devono muoversi i calciatori… Insomma fu innovativo e originale. Del resto era figlio di un’Europa positivista, quella dell’800, con un alto grado di cultura, aveva studiato Legge».


Le sue glorie maggiori si devono come detto ai tre scudetti vinti, uno come tecnico dell’Ambrosiana e due del Bologna. Non molti in Italia possono vantare di aver vinto il titolo con due squadre diverse.
«Sono solo sette: lui, Carnielli, Bernardini, Capello, Trapattoni, Liedholm e Allegri».
Dov’era la forza di Weisz? Cosa aveva di più o di particolare?
«Era un grande talent scout, lanciò molti giovani, uno per tutti Giuseppe Meazza, lo fece debuttare lui; ma anche quel Fiorini del Bologna che poi venne ucciso dai partigiani in quanto repubblichino. Gli piaceva lavorare con i giovani, era un ottimo gestore del gruppo, invitava i giocatori a casa sua per parlargli. Un tattico raffinato, avanzato, molto avanti per i suoi tempi».
Ma fu anche molto sfortunato: fuggito dall’Italia per le leggi razziali, finì nei Paesi Bassi e venne deportato dai tedeschi che li occuparono…
«Sì, forse avrebbe dovuto cercare di scappare come fecero tanti. Ma l’idea che mi sono fatto è che quasi nessuna delle vittime della Shoah aveva chiara la fine che l’attendeva, vi fu come una sorta di progressivo inabissamento fino ai lager, uno scivolare verso la morte senza possibilità di risalire alla vita».
Weisz è il simbolo di quelle generazioni che furono spazzate via dalla guerra e dalla barbarie nazista. Che cosa l’ha attirata della sua storia?
«La vicinanza con il mio quotidiano, come racconto spesso: quando ero giovane ho pensato, sbagliando, che il tema razziale fosse assai lontano ormai. Poi mi sconvolse sapere che lui abitava nel quartiere che divenne anche il mio a Bologna, abitava a 100 metri da casa mia, zona tranquilla, borghese. Chi avrebbe mai immaginato allora che sarebbe finito nelle camere a gas?».
Lei insegna giornalismo tra Milano e Bologna. Che nuova generazione di giornalisti vede crescere? Sono al pari del decadimento della politica o hanno una marcia in più? Si può sperare?
«Sono abbastanza fiducioso, a differenza di altri vedo nuove generazioni migliori delle vecchie, più preparate, semplicemente perché oggi sei obbligato ad avere una conoscenza più universale e approfondita che una volta non era richiesta ai giovani cronisti. Oggi ti trovi ad affrontare a volte un pubblico che legge più di te, e magari è anche più informato. Difficile essere al passo, non è da tutti».
Come combatterebbe lei il razzismo negli stadi?
«Io penso che vada combattuto con l’antidoto della cultura, della conoscenza, del sapere. Se conosci la storia, finisci per pensarla diversamente, fai più fatica a fare un coro antisemita allo stadio o scrivere offese razziste su uno striscione. È questo l’unico vero antidoto, la consapevolezza».

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