Cattolica. Franco Prioli compie 100 anni, il racconto di una vita in mare: «Ho iniziato che non c’erano i motori» GALLERY
CATTOLICA. Cento candeline per Franco Prioli, una vita nel blu dell’Adriatico. Nato a Cattolica il 12 febbraio del 1924, è conosciuto come “Patalnon”, il soprannome che ha ereditato dal padre. Un compleanno da record, il suo, che è stato festeggiato lo scorso week-end assieme alla città, ai due figli di 72 e 66 anni e ai nipoti di 48 e 42.
Tra abbracci e occhi lucidi è arrivata anche una sorpresa: il riconoscimento di cui è stato insignito sabato presso la Casa del pescatore alla presenza della sindaca, Franca Foronchi.
Vedovo da 16 anni, Franco aveva sposato nell’ottobre del 1950 Angelina Borghini, la dolce metà che aspettava i suoi rientri sul molo, con il cuore in gola e i bambini attorno, pronta a mettersi in cammino per vendere parte del pescato.
Se è vero, com’è vero, che la pesca è un elemento dell’identità romagnola, allora Franco è un romagnolo all’ennesima potenza e la sua festa è quella di un’intera comunità.
Prioli, quand’è iniziata la sua avventura?
«Avevo 7 anni quando sono salito su una barca a vela. Solo dal 1929, infatti, sono comparsi i primi motori, ma destinati soprattutto alle barche più grandi. Al mio fianco c’era mio fratello Mario che, appena 11enne, era già mozzo. Il mare mi piaceva e quella prima esperienza ha confermato questa sensazione».
Una passione condivisa con la famiglia?
«Mio padre era marinaio e lo erano il nonno, gli zii e i fratelli. Da loro ho imparato presto una grande verità. Il mare è qualcosa che ti resta dentro anche se non puoi più navigarlo, anche se puoi soltanto guardarlo. Quando mio padre è rimasto vedovo per la seconda volta, ha voluto finire i suoi giorni nel ricovero dei marinai, proprio di fronte al porto».
Ha attraversato il periodo buio della Seconda guerra mondiale?
«Sì, sono finito a Brindisi e a Spalato, dove mi trovavo quando fu siglato l’armistizio. Ho conosciuto la furia nazifascista che ha sconvolto l’Italia».
Il suo lavoro condensato in poche parole?
«Mare, fatica, poco sonno ma anche la passione più grande».
Rispetto agli albori della pesca, la portata dei cambiamenti è stata epocale...
«Molta della strumentazione e dell’attrezzatura che oggi è scontato trovare su una nave, ai miei tempi non c’era. All’appello mancava il radar e non potevamo contare neanche sui frigoriferi. Per tenere il pesce in fresco bisognava usare il ghiaccio che si acquistava prima di salpare».
Il momento più difficile?
«Quando andavamo a pescare alla Sprea, vicino alla costa croata, ogni 50 minuti circa bisognava tirare su la rete. Il che significava lavorare anche 36 ore di fila senza dormire, salvo brevissime pause».
Ha mai avuto paura di non tornare a casa?
«Tante volte, soprattutto durante le burrasche che ci coglievano di sorpresa al largo».
Questo antico mestiere è sempre meno gettonato dai giovani, cosa consiglierebbe ai ragazzi?
«Di avere passione, senza quella non abbocca neanche un pesce: è il motore propulsore di qualsiasi attività».
Quali valori ha trasmesso a figli e nipoti?
«La dedizione al lavoro che va scelto con il cuore e lo spirito di sacrificio, oltre al rispetto per un’epoca difficile rispetto all’attuale, ma anche più autentica in confronto con un orizzonte solo virtuale. Lo dico con una punta di malinconia».
Quello dov’è cresciuto è un mondo scomparso?
«Certo che sì, basti pensare alle grandi fabbriche conserviere che sono sparite. Si chiamavano Arrigoni, Ampelea, Adriatica, Marabotti. Oggi non resta che un comignolo nei pressi della darsena interna. È un mondo che resiste solo nei ricordi che condivido con i nipoti, nei libri scritti da storici o appassionati di antiche tradizioni e nella narrazione che si può ascoltare al Museo della Regina dove, tra i marinai che si raccontano e raccontano la marineria del tempo che fu, ci sono anche io».
Cosa l’ha resa più felice?
«Il mio lavoro».
Qual è il vero elisir di lunga vita?
«L’amore che mi circonda».
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