Vera Gheno e la consapevolezza delle parole

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La lingua è un territorio dalle infinite possibilità: noi ne siamo consapevoli? Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice, docente universitaria e saggista, ospite oggi alle 16 alla biblioteca di Santarcangelo nell’ambito della rassegna InVerso, ci parla in anteprima del suo ultimo libro Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole (Einaudi, 2021), in cui con competenza e leggerezza indaga i meccanismi linguistici e fa riflettere sull’essere parlanti. Ne dialogherà con Giovanni Boccia Artieri.

Sa che a Santarcangelo nel secolo scorso è fiorita una scuola di poesia dialettale molto importante. Da studiosa della lingua, come definisce il dialetto?

«I dialetti dell’Italia non sono dialetti ma lingue sorelle di quella che è diventata nazionale. Sono circoscritte nell’uso ma sono indipendenti e complete. L’unica differenza è lo status, che non è linguistico ma sociale e politico. Ripeto, l’unica vera limitazione è quella territoriale, una lingua nazionale è un dialetto con un passaporto e un esercito. Tullio De Mauro, mio maestro e ispiratore, sosteneva che i dialetti sono le nostre radici e vanno conservati anche perché la competenza linguistica si forma per aggiunta».

Nel suo libro, indagando i meccanismi della lingua, sostiene che le parole non sono solo parole, esprimono visioni e pensieri e provocano conseguenze, da qui l’importanza di esserne consapevoli. Ma si può insegnare l’arte di usare le parole?

«Tutti oggi hanno una voce pubblica, sia orale che scritta, prima era prerogativa di alcune categorie, ma va detto che nessuno ce lo ha insegnato, non c’è stata e non c’è una preparazione. Non mi stupisco, la tecnologia ci ha dato canali d’uso in contesti molto difficili da gestire senza averne le capacità. Siamo in una fase adolescenziale, deve passare un po’ di tempo, io sono speranzosa perché gli umani sono caratterizzati da grande adattabilità, l’importante è avere piena consapevolezza del peso delle parole che usiamo e assumersene la responsabilità».

Per farsi carico di questa responsabilità lei indica un metodo che struttura in tre passaggi: dubbio, riflessione, silenzio. Può spiegare come è nato e come si può metterlo in pratica?

«Io sono partita e parto dalla mia necessità personale. Queste tre parole chiave le applico su me stessa, è qualcosa di empirico, collezionato sul campo. Il dubbio lo applico alla fase di entrata, cercando di pensare a quello che posso capire con le competenze che ho: è fondamentale essere consapevoli dei propri limiti. In secondo luogo è buona cosa pensare al peso delle parole che si stanno per dire o immortalare nella rete, riflettere su ciò di cui si è competenti. Sapendo che la comunicazione perfetta non esiste, bisogna anche essere capaci di chiedere scusa. La terza via, quella del silenzio, è una scelta comunicativa che parla moltissimo».

Siamo in una fase di passaggio dai mezzi di comunicazione di massa ai mezzi di comunicazione delle masse, in che nodo si potrà superare?

«C’è quella battuta: se non vedi la fine del tunnel, arredalo. Tutta la vita è una fase di passaggio, è bene pensare come viverla al meglio, l’evoluzione accompagna l’essere umano. Rispetto alle parole, ogni persona ha un campo dove è più esperto, dove è imbattibile. Così come serve grande consapevolezza da parte di coloro che di mestiere fanno i comunicatori, ognuno ha una responsabilità individuale ed è importante riflettere sull’effetto che può avere la propria parola, ciascuno di noi è un micro influencer».

Concetto che lei ha ribadito nel suo “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole”.

«Metto in pratica quello che predico. Prima di cambiare il mondo è bene cercare di migliorare se stessi».

La lingua può fare molto?

«Sì, perché ha una caratteristica molto potente, quella di essere proprietà privata del singolo, unica come l’impronta digitale, ma è nel contempo una proprietà collettiva che rende possibile la società umana mettendoci in correlazione tra individuo e collettività».

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