Una ventina i volontari partiti dall’Italia giovedì scorso e rientrati martedì sera. Fanno parte degli equipaggi di terra di Mediterranea Saving Humans di Bologna e di Cesena, ma a rendere possibile la missione è stata una mobilitazione che ha coinvolto anche gli equipaggi di terra di Formigine, Nonantola, Carpi, Ferrara, Rimini, a cui si sono aggiunti sindacati, associazioni e privati cittadini che si sono attivati nella raccolta degli aiuti e nella raccolta fondi o mettendo a disposizione i mezzi: due van 9 posti, un van commerciale, un’auto sette posti e un’ambulanza, quest’ultima donata all’ospedale Dyadkovichi nella provincia di Rivne. La missione ha portato a Leopoli quasi 7 tonnellate di cibo, abiti caldi, prodotti per l’igiene intima, medicinali, ma anche generatori di corrente e power station.
Dalla parte delle persone
Il centro di accoglienza informale di Striskypark, quello comunale di Sychiv, realtà religiose come quelle gestite dalla Comunità di Sant’Egidio di Leopoli o il monastero di Padre Gregory, un campo rom, l’ong transfemminista Insight, il progetto di supporto psicologico per i profughi che fa base alla stazione di Leopoli, l’ospedale civile Dyadkovichi nella provincia di Rivne. Sono solo alcune delle realtà incontrate. In ciascuna di queste hanno portato aiuti e beni di prima necessità, ma anche vicinanza, presenza e ascolto. Perché in Ucraina come in mezzo al mare, Mediterranea Saving Humans è accanto alle persone, a difesa dei diritti umani, per testimoniare e raccontare la violenza della guerra.
Vita nonostante la guerra
A Leopoli si vive una sensazione di costante contraddizione. La città è bellissima, le coperture messe all’inizio della guerra a protezione dei monumenti non ci sono più, i sacchi di sabbia per proteggere le finestre in caso di esplosione si vedono ormai solo davanti agli edifici istituzionali, la città è viva e vital ed è facile dimenticare la guerra: è la vita che va avanti nonostante tutto. A ricordarla però ci sono le sirene degli allarmi antiaereo: ogni volta si cerca riparo nel rifugio più vicino. Quello del centro Don Bosco di Leopoli, che dall’inizio della guerra ospita i volontari e le volontarie di Mediterranea in missione, è uno spazio attrezzato con pallet e coperte. È qui che sfilano rapidi gli studenti, dai bimbi dell’asilo a quelli delle superiori, quando le sirene interrompono le lezioni. La guerra si palesa anche nei cimiteri: quello monumentale di Leopoli è quasi raddoppiato in questo anno e il giardino antistante si è riempito di tombe, per lo più di militari, uomini e donne morti al fronte nell’ultimo anno.
I centri di accoglienza
Poi ci sono i campi profughi e le strutture di accoglienza. Alcuni organizzati dallo Stato, come quello Sychiv, diventato enorme, dove vivono 1.300 persone, altri più piccoli gestiti da gruppi religiosi, come quello di padre Gregory, che accoglie famiglie rom sfollate dalla guerra, ultimi tra gli ultimi che tutti discriminavano. A queste si aggiungono case private e realtà informali, come Striskypark, organizzato nella palestra di una scuola, in condizioni di forte disagio, gestito da volontari ragazzi guidati dal loro professore e sostenuti dagli aiuti che arrivano dalle associazioni internazionali. In stazione a Leopoli c’è Olga, psicologa e docente universitaria, che dall’inizio del conflitto ha attivato uno sportello di supporto psicologico. Lei e i volontari del progetto salgono sui treni che portano le persone lontano dalle zone occupate per garantire supporto psicologico, ma danno anche assistenza ai disabili per superare le barriere architettoniche della stazione di Leopoli.
Le armi non bastano
Gli ucraini sono ancora uniti, in modo forse insperato fino a un anno fa, ma comincia a sentirsi il peso dello slancio eroico dei primi giorni. Dietro la vitalità di Leopoli si nasconde anche tanta stanchezza, lo spiega bene Juri, della Comunità di Sant’Egidio. Del milione di persone che hanno attraversato Leopoli dall’inizio dell’invasione, sono 250mila i profughi attualmente in città. La Comunità di Sant’Egidio si occupa della consegna dei pacchi alimentari, ma anche di far arrivare aiuti nelle zone più a est e a sud del Paese. Se gli aiuti militari continuano ad arrivare, quelli umanitari ha spiegato Juri arrivano sempre meno, e per quanto ci sia bisogno dei primi, su questo nessuno ha dubbi in Ucraina, «non è dalle armi che arriverà la soluzione alla guerra. Bisogna investire risorse per trovare altre soluzioni». Oggi in Ucraina, spiega Juri, l’economia è ferma, lo sono tante industrie e gran parte dell’agricoltura e il Paese dipende sempre di più dagli aiuti: «Abbiamo alleati militari, servono più alleati umanitari».