Scuola e disturbi dell'apprendimento, il luminare: "È un vero business"

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Boom di certificazioni per Dsa, il luminare Novara scende in campo: «È un vero business». Tra l’anno scolastico 2012/2013 e il 2020/2021 nelle scuole superiori di Rimini sono aumentate del 967% le segnalazioni di disturbi specifici dell’apprendimento, passando da 157 a 1675. A far luce sulla questione è Daniele Novara, pedagogista , counselor, autore e formatore, ma anche docente del master in Formazione interculturale presso l’Università Cattolica di Milano, nonché fondatore del Cpp, Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti nel 1989.

Novara, cosa si intende per Dsa?

«Un grappolo di disturbi specifici dell’apprendimento che presenta differenze molto alte fra loro: ovvero dislessia, disgrafia, discalculia e disortografia. In particolare la dislessia è l’incapacità di leggere normalmente. Studi svolti anche a partire da biografie di celebri dislessici, come il fisico Einstein o il musicista Beethoven, convergono su un punto nevralgico. Sebbene si tratti di un deficit neuro cerebrale, il cervello dei dislessici ha modalità di funzionamento diverse ma altrettanto significative degli altri, se non di più. Basti pensare a Einstein: il suo cervello si muoveva in un’altra dimensione ben più ricca, per cui il pregiudizio sui dislessici non ha alcun fondamento».

Perché alle superiori si registra questa esplosione di certificazioni, a fronte di indagini sono sempre più precoci?

«Da un lato il fenomeno ha qualche vago tratto di legittimità, perché la relativa legge 170 risale al 2010 e all’inizio, com’è normale, stenta a essere utilizzata, ma progressivamente il suo uso è diventato improprio e la legge usata male».

Esiste un anno spartiacque?

«Il 2017, quando ho scritto il libro “Non è colpa dei bambini” dove, per la prima volta in Italia, viene denunciato l’eccesso di neuro certificazioni psichiatriche che in prevalenza riguardano le disabilità ma anche i Dsa. I bambini sono stati investiti da un’ondata di certificazioni senza precedenti».

Prevalgono le segnalazioni pubbliche o quelle private?

«La questione è molto regionalizzata: in Emilia-Romagna prevale il pubblico, in Lombardia il privato, fermo restando che l’aumento significativo è ormai gestito dai privati, perché le regioni dove prevale il pubblico non riescono a stare al passo. Così assistiamo alla nascita di centri privati che lavorano anche per business, dandosi un gran da fare».

Quanto costa una certificazione?

«Nel privato circa 600 euro e altre migliaia di euro per gli pseudo trattamenti, ma il vero problema è un altro. Tradotto: anche nel pubblico la certificazione viene fatta in maniera molto superficiale attraverso batterie di test, che sono una metodica equivoca. Dal punto di vista scientifico a fare la differenza, permettendo un’acquisizione reale, è l’osservazione del bambino che evita l’effetto alone. Un’eventuale problematicità, si accentua sul piano emotivo proprio in corrispondenza dello svolgimento del test, inficiandolo. Peraltro in Lombardia esistono centri privati che sfornano certificazioni dopo tre incontri o addirittura uno solo. Viceversa l’osservazione svolta in studio con tecniche di gioco deve essere continuativa».

Tornando al boom di segnalazioni alle scuole superiori, in molti si chiedono se non sia la creazione di un lasciapassare per la promozione. È una domanda legittima, almeno in certi casi?

«Lo è. Una disfunzione neuro cerebrale grave, come la dislessia, dal punto di vista tecnico riguarda il 2 o al massimo il 3% della popolazione, quindi ci saranno tre dislessici in tutta la scuola, non in una classe. Dunque vengono segnalati casi che con la dislessia non hanno niente a che fare, ma dove sono in gioco altre difficoltà della lettura. E ancora: non ha molto senso cercare la dislessia in piena adolescenza ma neanche precocemente, perché bisogna dare al cervello infantile la possibilità di maturare. Quindi gli screening alla scuola dell’infanzia sono l’aspetto più agghiacciante del nodo, anzi un vero ossimoro, visto che in tale contesto il bambino non deve leggere. Il dislessico è capace peraltro di compensazioni nel tempo e comunque se la scuola seguisse le mie indicazioni sulla valutazione evolutiva farebbe l’operazione più sensata, valutando i progressi degli alunni e non i loro errori. L’errore infatti è un pezzo dell’apprendimento non una neuro diagnosi, anche perché sul piano del recupero dei Dsa non esistono interventi decisivi».

Se tante diagnosi sono errate, da cosa derivano le difficoltà nella lettura?

«Si tratta di problematiche educative. In particolare gli elementi che interferiscono nella lettoscrittura sono tre. Il primo è l’eccessiva esposizione del bambino ai videoschermi e alla realtà virtuale nei primi tre anni di vita. Duemila ricerche internazionali dimostrano che così si indeboliscono le capacità di lettoscrittura, soprattutto se si consente l’uso della tastiera che impedisce l’uso di strumenti che sollecitino la scrittura sul piano psicomotorio, come ad esempio la penna o le matite. Altra questione rilevante è quella del ciuccio che impedisce le lallazioni e l’emissione fonologica e fonetica. Il terzo elemento deprimente è la riduzione della motricità: ormai i bambini sono sempre più sedentari, ma la scrittura è una derivazione neurologica del movimento, non del ragionamento. Perciò limitare lo spazio motorio dei piccoli riduce di fatto la capacità di spostarsi in modo adeguato sul piano della lettoscrittura. Ricapitolando tutto l’apprendimento umano parte dalla sfera motoria, eppure i piccoli, dal gioco al disegno, usano sempre meno le mani rispetto al passato».

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