Santarcangelo festival, presentata la 53ma edizione

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In uno dei momenti più fragili nei suoi 53 anni, il Santarcangelo festival si chiede se si fa abbastanza di fronte a tutte le fragilità, ambientali, economiche, geopolitiche, culturali, e si interroga su come vivere il disequilibrio tra ciò che siamo disposti ad accettare e ciò che desideriamo privilegiare.

Così ha esordito ieri in conferenza stampa a Bologna il presidente dell’Associazione Santarcangelo dei Teatri, Giovanni Boccia Artieri. E ha precisato che «il festival è una palestra di immaginazione e desiderio, un’occasione per esplorare visioni alternative e modi altri di vivere gli spazi pubblici e gli incontri».

Gli hanno fatto eco per la Regione Gianni Cottafavi e la sindaca di Santarcangelo Alice Parma, ribadendo l’importanza di fare cultura in questi frangenti, dando continuità a chi è in grado, come il festival che in regione è il più longevo e il più importante, e facendo ripartire chi non lo è.

«Gli ultimi 3 anni sono stati molto difficili, e anche ora la situazione è complessa, ma nonostante tutto il festival ha avuto una crescita culturale, formativa, strutturale, relazionale importante, ciò consente di essere utili a una discussione pubblica sul cambiamento».

Nel 2023 continua la linea di ricerca tracciata lo scorso anno, così sarà ancora un festival molto coinvolto dal punto di vista politico e sociale. Come una piazza aperta in cui potersi confrontare, tra consenso e dissenso, accettazione e contrasto e alla base la possibilità di indagare sé stessi e mettersi in discussione.

Enough not enough

Sono state scelte due parole inglesi, legate da un avverbio negativo, “Enough not enough” per approfondire tutto questo e per dare il titolo al 53° Santarcangelo festival. «Un claim che rivela ambiguità – ha esplicitato il direttore Tomasz Kirenczuk – ma apre molte possibilità di leggere e incorniciare il festival; serve invitare a una riflessione sulla realtà e non a spiegarla, riguarda le fragilità e ne evidenzia le direzioni contradittorie così da farci dire basta a ciò che non vogliamo più e dire ciò che vorremmo, e ad aiutarci sono le visioni e le pratiche degli artisti».

Il festival, che arriva a luglio, dal 7 al 16, e si affida proprio agli artisti per leggere la realtà e immaginare nuove prospettive di coesistenza, è stato raccontato dal direttore attraverso i suoi molteplici filoni tematici uniti da alcuni punti fermi caratterizzanti e consolidati. Multidisciplinarietà – una strada intrapresa con decisione da qualche anno –, eterogeneità – che con coraggio offre uno sguardo ampio e non si pone confini –, internazionalità – portata alla sua massima espressione dal polacco Kirenczuk, e quest’ultima non è solo legata alla presenza di artisti provenienti da tutto il mondo ma anche a collaborazioni, partenariati, relazioni che si sviluppano nell’arco dell’anno da diverso tempo.

Teatro, danza, musica, arti visive

Il festival ospita generi performativi diversi, tanta danza, musica, arte visiva, discipline trasversali non ben identificabili che oggi sono un denominatore comune in tutto il mondo, e teatro. La società internazionalmente omologata svela qua e là visioni alternative che il direttore ha cercato e trovato e ha scelto, soprattutto quando protagonista è «il corpo, come strumento politico, insieme oggetto e soggetto dell'attività artistica, corpo come lavoro, come cura, come denuncia, come racconto, come cambiamento».

Corpo che da fonte di discriminazione si trasforma in strumento di liberazione e punto di partenza per la costruzione della propria identità, alimentando la speranza di un futuro più equo e inclusivo in cui coesistere.

Un’edizione che si prospettava non facile per le ristrettezze economiche, e invece il programma è assai nutrito, con oltre 40 compagnie e artisti, 96 lavori tra debutti e repliche e non mancano grandi nomi internazionali.

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