Ron a Riccione per "Balamondo": l'intervista

Riccione inaugura i festeggiamenti del centenario della città con il Balamondo world music festival e un doppio appuntamento in compagnia di Ron (venerdì 7 ottobre) e Paolo Fresu (sabato 8 ottobre). Si comincia questa sera, alle 21, in Piazzale Ceccarini: ospite d’eccezione con il suo “Non abbiam bisogno di parole live tour” sarà Ron, all’anagrafe Rosalino Cellamare, accompagnato dalla Ensemble Symphony Orchestra diretta da Giacomo Loprieno. Sarà l’occasione per il cantautore pavese per ripercorrere, live, i suoi primi 50 anni di carriera, partendo da quel lontano 1969, quando la Rca lo chiamò perché Lucio Dalla aveva scritto una canzone per lui, “Occhi di ragazza”. Fino all’ultimo album di inediti, fresco di pubblicazione, “Sono un figlio”.

«Mi piace da sempre la Romagna. – esordisce il cantautore – È un luogo dove si vive bene, dove c’è il rispetto per l’altro».

Ron come nasce questo album?

«Durante la pandemia, in quel periodo non riuscivo a scrivere nulla, mi sono ritrovato con tanto tempo davanti a me. Però mi è servito a farmi rallentare, pensare. Ho così scoperto tanti giovani di talento di cui mi sono innamorato, come Giulio Wilson che mi ha fatto venir voglia di tornare al pianoforte. Per questo album, a differenza di altri, mi sono lasciato andare. Ho voluto raccontarmi dal profondo. Per me, come per tutti, è stato un periodo difficile, ma anche importante. La musica è stata la mia ancora di salvezza, del resto la musica mi salva sempre».

È dedicato a suo padre?

«Si, ma anche all'’amore dei miei genitori, nato durante la seconda guerra mondiale, quando mio padre si era nascosto nella cantina di mamma e lei lo salvò innamorandosene. Erano due persone meravigliose, sono stati pazzeschi, senza di loro non sarei mai riuscito a intraprendere questa carriera. Quando gli dicevo “voglio cantare”, mi rispondevano serenamente pur con la preoccupazione negli occhi, poi hanno capito che questo era davvero quello che volevo fare».

Che figlio è stato?

«Sono andato a recuperare un diario che scrivevo quando avevo 12 anni. Per me è stato importante riaprilo per ricordare le cose che pensavo allora, quello che mi interessava. Sono sempre stato un rompiscatole già quando avevo 10 anni. Oggi, dopo 50 anni di musica, tra alti e bassi, mi sento anche figlio di questo paese, della gente che mi ha sempre voluto bene».

È cresciuto ascoltando le canzoni di Celentano e di Morandi, ma quando ha capito che la musica sarebbe stata la sua strada?

«Praticamente subito. Da ragazzo ho fatto molti concorsi per voci nuove, all’epoca non c’erano X-Factor o i talent. A 14 anni un discografico della Rca mi notò, ma non si fece più vivo. Dopo un anno arrivò una sua chiamata, mentre io ero a scuola. Dovevo essere a Roma in giornata, avevo il cuore che batteva a mille. Poi il primo disco e Sanremo. A 16 anni io e Nada abbiamo cantato la stessa canzone, “Pà diglielo a mà”, al Festival. Fin dai primi concorsi ho capito che quando ero sul palco non ce n’era per nessuno, non perché fossi il più bravo, semplicemente perché sentivo che la musica era la mia vita».

Dopo 50 anni di carriera viene spontaneo fare bilanci cosa vede guardandosi indietro?

«Sono stati proprio belli questi 50 anni, anzi 52 visto che c’è stato di mezzo il Covid. Caratterizzati da incontri pazzeschi con artisti e produttori importanti che hanno segnato la mia carriera. Ho tanti racconti da condividere, ma soprattutto sono felice di essere riuscito a fare quello che volevo nonostante alcuni momenti difficili che però mi hanno insegnato tanto. Mi ritengo una persona fortunata da sempre appassionata del proprio lavoro».

Prossimamente cosa la aspetta?

«Mi aspetta un tour nei teatri, luogo sacro per fare musica. È un periodo difficile questo, ma le persone hanno imparato a resistere anche grazie alla musica».

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