Rimini, processato per una somiglianza su Facebook e risarcito con 5mila euro: sconfitti gli investigatori improvvisati del web

Una maglietta con il logo di un famoso ritrovo riminese del tempo che fu.
È da qui che un gruppo di «ricercatori internettiani» ha costruito la presunta prova costata tre anni di processo e il quasi fallimento del matrimonio ad un vice brigadiere 40enne della Gendarmeria di San Marino e ad uno sconosciuto (non si erano mai incontrati prima di questa vicenda), trascinati davanti al giudice di pace per difendersi dall’imputazione di lesioni personali in concorso.


Il fatto

Secondo l’accusa nella notte tra il 21 e 22 luglio del 2018 avevano picchiato in un noto locale del lungomare un 23 enne riminese. Alla loro identificazione non erano arrivate le forze dell’ordine ma i “detective improvvisati” di cui faceva parte anche il querelante. Era stato lui esaminando pagine e pagine di Facebook, in appena cinque giorni, a riconoscere i loro volti e a dargli un nome attraverso i Tag. Il passo successivo è stato quello di presentare una querela in Procura. Gli uffici al terzo piano del palazzo di Giustizia prima di chiudere il fascicolo, hanno chiesto alla Polizia di verificare le accuse. Cosa che il 23enne ha fatto senza indugio una volta convocato in Questura.
Il vice brigadiere difeso dall’avvocato Milena Montemaggi e il co-imputato, assistito dall’avvocato Emanuele Polverini, hanno sempre negato di avere mai partecipato al pestaggio. Il primo, addirittura, dalla sua parte aveva diverse persone che la sera incriminata lo hanno visto assieme a moglie e figli ad una festa a Murata, nel cuore della Repubblica. Tutto questo, però, non è bastato per evitargli il processo iniziato nel 2020 che ha visto la conclusione, con la loro assoluzione con formula piena, lo scorso 11 luglio.


La sentenza

È andata decisamente peggio al querelante che oltre a dover pagare le spese processuali sostenute dai due amici ingiustamente accusati, dovrà pure risarcire entrambi per il danno morale subito quantificato in 5mila euro per il gendarme e 1.000 euro per il coimputato. Il giudice ha infatti accertato la colpa grave del querelante a causa del suo alto grado di trascuratezza, consistito nel non aver avvertito l’ingiustizia di una pretesa quando questa doveva apparire palese con «un minimo di ponderazione».

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