Rimini, Luigi D'Elia ospite di "Filo per filo. Segno per segno"

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I suoi lavori sono un inno al mistero dell’infanzia e dell’adolescenza che incantano anche gli adulti, per leggerezza, purezza, dialogo con l’anima. Lui è Luigi D’Elia, autore, attore, scenografo, protagonista della 5ª edizione del festival delle arti dell'infanzia e dell’adolescenza, curato da Alcantara Teatro, Filo per filo. Segno per segno.

Due i momenti: oggi alle 18 nel giardino del Ceis con “Aspettando il vento”, tratto dall’omonimo libro Premio Andersen, scritto con Francesco Niccolini come lo spettacolo, e il 18 alle 21, al Villaggio di Mutonia a Santarcangelo, con “La luna e i falò”, primo studio dal progetto per un iper racconto sulla memoria e l’oblio ispirato all’opera di Pavese.

Luigi, parliamo di teatro. I teatri sono pieni. Buon segno?

«È un gran momento. Le persone sono assetate di esperienze dirette. È bene approfittare. Ho una grande preoccupazione invece rispetto alla scuola che è stata messa in grande difficoltà e ciò si avverte ancora di più nelle attività extra curriculari come il teatro: non allenando il muscolo l’attenzione cade».

Lei lavora in tutta la Penisola ed è pugliese, negli ultimi anni è cambiata la realtà teatrale al Sud?

«No, ci sono ancora le stesse differenze. Le cose che dovevano cambiare non sono cambiate. L’Italia è divisa. Basta vedere la mappa del Fus: il Nord è fitto fitto, al Sud c’è solo qualche santuario sparso. Io vivo a Brindisi e questa estate ho solo una data in Puglia mentre al Nord tante».

E della Romagna che conosce bene che dice?

«Io sono sempre in Romagna. Sto pensando di trasferirvi la mia sede. È la mia seconda regione di vocazione».

Veniamo ai suoi spettacoli, perché è così importante scrivere e recitare per i ragazzi?

«Innanzi tutto perché in loro è come se ci fosse una matrice intoccata, qualcosa di misterioso, un territorio selvaggio e libero. Sento che loro sono vicini a certe frequenze, ad altre energie. Mi pongo di fronte a questo mistero che tanto mi incuriosisce».

Fare teatro per loro può avere anche una valenza pedagogica? Educare i piccoli al teatro vuol dire avere un pubblico di adulti domani?

«No, assolutamente. Per me vale la condivisione. Il teatro coi più piccoli non ha una valenza educativa. Io difendo il valore per l’arte che non ha nulla da insegnare e il teatro è un’esperienza artistica, dove noi adulti non dobbiamo mai metterci in una condizione di superficialità. Loro sono il pubblico di oggi alla loro età, fare investimenti per il futuro è impossibile. Il futuro per gli adolescenti è da brividi, ne parlo da genitore prima che da artista».

Oggi presenta al Ceis lo spettacolo, vincitore del festival di teatro ragazzi “Festebà Ferrara” nel 2013, che racconta l’incontro di tre ragazzini sperduti in una palude nella stagione del passaggio degli uccelli migratori.

«Si tratta della prima storia che ho scritto con Francesco Niccolini ed è nata nel 2017 dopo l’incendio nella Riserva naturale di Torre Guaceto in Puglia, dove io lavoravo come guida».

Il rapporto con la natura è per lei un filo conduttore. Perché?

«Ne ho bisogno. È la mia fonte di ispirazione, dove riesco a intercettare il magico. Ora guardo un po’ di più gli umani e in particolare la ricerca di relazione con gli animali, gli alberi».

L’altro lavoro che presenta a Mutonia è nuovo ed è ispirato al romanzo del 1949 di Cesare Pavese, come è nato?

«Ho scelto Pavese per tanti motivi. La sua scrittura mi ha formato quindi avevo un conto in sospeso con lui. “La luna e i falò” poi è un testo di riferimento. È il primo lavoro solamente mio e l’avventura scenica l’ho condivisa col regista Roberto Aldorasi».

Quando debutterà? E dove?

«Per ora è un copione aperto, è una lettura. Ce ne saranno altre e il percorso si concluderà a Santo Stefano Belbo, il 9 settembre, compleanno di Pavese. Nell’autunno poi gli daremo forma in teatro».

Si tratta sempre di un monologo che è la sua cifra sul palco.

“Certo, il monologo è lo strumento al momento che conosco e che riesce a farmi evocare degli spiriti. Qui, partendo dal testo sono stati presi e sviluppati dei rami, come Cinto che parla con gli elementi della natura. E ci siamo posti delle domande».

In particolare quali?

«Una soprattutto: abbiamo capito bene? Pavese ci dice che «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via» e questo è diventato il manifesto della paesologia. Ma siamo sicuri che ci voglia un paese? Cosa stiamo sbagliando nel nostro approccio col paese? La nostra qui è una rilettura intima e nazionale».

Info: www.filoperfilo.it

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