Dalla provincia di Rimini all’Arizona. Ha costruito un impero gastronomico che oggi vanta un fatturato da 15 milioni di dollari e 165 dipendenti. Stefano Fabbri è volato negli States nel 2008, destinazione Seattle, ma la città troppo cupa lo convince a trasferirsi dove c’è il sole 360 giorni l’anno, ovvero Phoenix in Arizona. Il luogo dov’era nata e cresciuta la modella che, conosciuta in Romagna, all’epoca era sua moglie. Segue un periodo di assestamento finché nel 2010 apre il primo ristorante Pomo a Scottsdale in un edificio che rievoca un castello toscano. I locali si moltiplicano finché arriva la mannaia del Covid che costringe il 52enne a scelte dolorose «come una mamma che non ha latte per tutti i figli». Avrebbe resistito, se avesse saputo degli aiuti statali poi concessi al settore ma non ha la sfera di cristallo perciò chiude o vende 4 locali su 8, subendo una perdita di 3 milioni di dollari. Solo un inciampo da cui si rialza mietendo nuovi successi nei ristoranti (un Rosso Italian a Phoenix, tre Pomopizzeria a Scottsdale, Phoenix e Biltmore) e nelle due “Luna gelateria”. Altrettanto lunga la lista dei clienti famosi, tra cui il rampollo di casa Agnelli, Lapo Elkan, gli ex campioni di basket Shaquille O'Neal e Charles Barkley ma anche Michael Phelps, l’olimpionico di nuoto più medagliato della storia. Del resto Fabbri è figlio d’arte: nel 1949 la sua famiglia ha aperto il forno di Sant’Agata, ora condotto dalla cugina, nonché la gelateria Luna.
Fabbri, quali sono gli ingredienti del successo oltreoceano?
«Il mio non è un risultato immediato ma costellato da vicissitudini. Convincere il mercato americano non è facile, basti pensare che il 70-80% dei ristoranti chiude i battenti dopo 2 anni».
Come si diventa l’eccezione alla regola?
«Spiegando il significato della cultura gastronomica italiana»
La pandemia ha flagellato l’economia dell’Arizona?
«Non quanto in California o a New York. Salvo un mese, siamo sempre rimasti aperti. Quando abbiamo chiuso al pubblico incassavo 10mila dollari al giorno con le consegne».
Cavallo di battaglia?
«L’autenticità. A conquistare la clientela sono le pizze, in testa la Margherita seguita dalla Principe (rucola, prosciutto crudo e parmigiano) e la pasta stesa a mano: dagli strozzapreti pasticciati, che chiamo “alla salsiccia”, alla cacio e pepe. Per le mie gelaterie uso solo prodotti romagnoli: Mec3 di San Giovanni Marignano e la Babbi di Cesena».
Perché puntare sulla pizza?
«Quando sono sbarcato negli States, quasi vent’anni fa, nessuno aveva idea di cosa fosse la pizza napoletana. In generale la amavano sottile e molto crispy, croccante, la mia non convinceva e tutto andava a rotoli».
Come ha invertito la rotta?
«Con un mix di talento e fortuna. Tutto è cambiato quando il noto critico gastronomico Howard Seftel ha varcato la soglia del locale. Era il 14 luglio del 2010. Non ci siamo resi conto della sua presenza, perché era un professionista vecchio stampo di cui nessuno conosceva le fattezze. La storia ricalca il cartone Ratatouille. Se la recensione era positiva, il ristorante decollava, altrimenti gettavi l’attività nel bidone. Morale: fino al suo ingresso guadagnavo 400 dollari, al massimo mille al giorno, dopo il suo articolo il telefono ha iniziato a squillare e sono passato a fatturare 10mila dollari in 24 ore».
Perché i clienti tornano?
«Ora apprezzano anche la pasta cotta al dente che prima rimandavano indietro. Media quotidiana di clienti? Quasi mille al giorno, ogni locale conta quasi 200 sedute. Traguardi a cui contribuisce anche un fortissimo team».
Cosa offre l’America più dell’Italia? E cosa toglie?
«Gli Stati Uniti hanno una visione manageriale del lavoro, non familiare, è difficile trovare personale qualificato ma se lo formi facendolo sentire parte della squadra, ogni tanto puoi andare in vacanza (ride), senza preoccupazioni. Tutto funzionerà come un orologio svizzero. Il prezzo del sogno americano? Rinunciare alla socializzazione all’italiana. Per 10 anni ho lavorato 7 giorni su 7, tornando in Romagna al massimo per una settimana. Ma se c’è la passione, i sacrifici non pesano».
Hai un oggetto portafortuna?
«Non sono un tipo che si affeziona agli oggetti, né colleziona cimeli, ma conservo il mattarello con cui mia madre mi ha insegnato a fare i tortellini, quelli piccoli che preparo in brodo solo per Natale, visto le temperature torride dell’Arizona. Non manca l’attrezzatura per i passatelli e il contenitore di una volta per le amarene. Ma ad attirare gli sguardi è il murale “Spacca Napoli” che mostra il dedalo di viuzze della città partenopea richiamandone colori e profumi. La maggior parte dei locali che si dicono italiani neanche scimmiottano la nostra cucina, illudendosi che basti una gran puzza d’aglio».