Rimini, il dj Montanari e le disco chiuse: "Siamo depressi dal Covid, ormai vado a letto alle 22"

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Da venerdì 11 febbraio le discoteche possono tornare in pista. Ingresso possibile con super Green pass, cioè per vaccinati con due dosi o guariti dal Covid. Capienza al 50% per i locali al chiuso, obbligatorio indossare la mascherina tranne quando si balla. Il mondo della notte, sta però vivendo momenti difficilissimi, se si pensa che negli ultimi due anni in Italia sono state chiuse mille discoteche su un totale di oltre 5mila e sono stati persi 30mila posti di lavoro.

Il dj riminese

«Non so come farò a stare sveglio per le serate, se mai ripartiremo. Ormai vado a letto alle 22». Parola del celebre dj riminese, remixer e produttore discografico Riccardo “Ricky” Montanari: uno che ha suonato nei più prestigiosi club mondiali da Los Angeles a Tokyo, passando per Montreal. La sua carriera inizia in Riviera negli anni Ottanta, con lo sbarco della musica house in Italia. Dopo l’esperienza al Peter Pan di Riccione, nel 1988 diventa resident dj dell’Ethos Mama club di Gabicce Mare e punta di diamante del Diabolika, poi tante serate all’Echoes di Misano.

«È dura»

«Quella innescata dalla pandemia è una situazione che provoca inevitabili contraccolpi – fa presente l’artista riminese – ed anche un po’ di depressione». I motivi sono sotto gli occhi di tutti. «Non ti senti considerato, né tanto meno utile, visto che non puoi svolgere la professione per cui sei nato». Un’amarezza condivisa da un intero comparto, penalizzato dalle scarse possibilità di lavorare. «Le istituzioni non ci hanno aiutato con sostegni concreti, ma solo a parole. Qualche sprazzo di quasi normalità l’ha garantito l’estate, ma l’ultimo stop imposto a dicembre l’ho accusato più dei precedenti – confessa – perché ha finito per sovrapporsi alla ripartenza stessa. Ci hanno chiuso e basta da un giorno all’altro». Non non si permette di dire che non siano prescrizioni giuste nella lotta contro il virus «ma per molti dell’ambiente, non solo per i dj, «ora è veramente dura». E il rapporto con i colleghi non sempre lenisce le criticità: «Durante il primo lockdown ci siamo ritrovati attraverso le piattaforme per far musica insieme, ultimamente invece è sfumata pure la voglia di ascoltare o comprare musica ma anche di andare in studio». Parole che fanno riflettere, visto che a pronunciarle è un collezionista di caratura, forte di oltre 40mila vinili.

La console al chiodo

«Alla lunga abbiamo attaccato la console al chiodo, il paragone calzante è con uno sportivo che di colpo dovesse smettere suo malgrado di allenarsi e gareggiare. Ormai sono così abituato ad andare a letto presto, addirittura alle 22 – rivela – che non so come farò a stare sveglio per fare le serate. Qualche collega mi prende bonariamente in giro, ma le cose stanno così. Una volta dormivo di giorno e lavoravo di notte, anche se poi con l’età alcune dinamiche cambiano». Il problema vero «ora è la ripartenza: non è semplice vegetare per mesi di fermo totale e poi scattare al via. Certo è che siamo ancora sospesi: c’è una data ma poi cambia tutto da un momento all’altro». E condivide la sua esperienza: «L’anno scorso, per non stare con le mani in mano, ho lavorato due mesi nel canile vicino a Montescudo, dove abito. Ma il mio lavoro mi manca da morire, come le relazioni allacciate negli anni e gli scambi creativi con altri artisti. Inventarsi qualcos’altro non è facile e se ad una certa età presenti un curriculum con scritto “dj” ti ridono un faccia». Ad appoggiarlo con amore la moglie che lavora come toelettatrice per animali, una mosca bianca, rivela, visto che «in molti casi la compagna di un dj resta a casa con i bambini per i ritmi convulsi» della dolce metà. Montanari spiega che «il 40-50% dei colleghi se ne sono andati dall’Italia. Chi a Berlino, chi a Miami e anche in Sudmerica. Girano il mondo e sono felici. Fossero rimasti qui, non avrebbero fatto carriera. Magari se fossi più giovane, mi deciderei anch’io a fare la valigia, del resto ho vissuto anche a Londra».

Senza “scudo”

Un altro scoglio? «Non abbiamo un ente comune che ci rappresenti tutti, per cui quando si apre il confronto con chi di dovere, non veniamo considerati granché. Unica voce fuori dal coro l’associazione A-Dj che ha inviato più di una missiva a Roma. Il problema di fondo però resta che la nostra categoria è composta da persone che faticano a mettersi insieme, difficoltà peraltro comune a tutti gli italiani».

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