Rimini. Il chirurgo Matteo Ravaioli: «Così faccio i trapianti a ritmo di rock»

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«Quando opero ascolto musica rock». Ha 48 anni, di cui 24 passati in sala operatoria, il chirurgo riminese Matteo Ravaioli che ha superato quota mille interventi. Pazienti, non numeri da spuntare in una lista, spiega Ravaioli accennando al rapporto di amicizia che nasce con molti: «Condividono aspetti della loro esistenza che da medico mai avresti immaginato: è l’occasione per conoscere la vita a 360 gradi».

Come ci si rilassa durante un’operazione?

«In accordo con l’équipe, ascoltiamo la musica che resta un valido strumento per scandire il ritmo dell'intervento, aiutando anche quando si lavora di notte. Per bandire la distrazione, è sufficiente evitare il volume troppo elevato. Sul tema esistono molti studi della letteratura scientifica che attestano gli aspetti positivi del sottofondo».

Quale genere predilige?

«Senz’altro la musica rock. In particolare mi piacciono i Green Day ma a furia di sentirli, gli specializzandi “sono insorti” (ride) perciò adesso vario molto. Talvolta chiediamo agli stessi pazienti, quando entrano in sala operatoria, se hanno piacere di ascoltare canzoni per rilassarsi, da qui il progetto».

Di cosa si tratta?

«Sto cercando fondi per uno studio scientifico sui benefici della musica ascoltata dal paziente, mentre inizia l’effetto l’anestesia».

Quanto conta il lavoro di squadra in un trapianto?

«Senza la sinergia tra medici, infermieri e anestesisti non si potrebbe lavorare, siamo come un’orchestra. Ciò non toglie che la collaborazione possa diventare difficile, specie negli interventi complessi e stressanti. Eventuali tensioni non vanno però fatte cadere nel vuoto, è bene ragionarci insieme a posteriori.

C’è un caso che le è rimasto più impresso?

«Fatico a trovare un solo esempio, sono veramente tantissimi gli interventi che mi hanno dato soddisfazione. Potrei menzionare il papà che ha donato un rene al figlio per effettuare il trapianto da vivente, ma anche pazienti che, sottoposti a trapianti di fegato, arrivano con un'aspettativa di vita brevissima e poi rinascono. C’è una ragazza che torna spesso per sensibilizzare sulla donazione di organi, spronando i giovani a divenire ambasciatori in materia. Conservo tutte le lettere che mi scrivono i pazienti, tra le righe prevale il ringraziamento per aver altro tempo da trascorrere con i familiari».

Come siamo messi per le donazioni in Romagna?

«La nostra è una regione molto virtuosa sia per motivi organizzativi, sia per l’impegno dei professionisti, nonché la sensibilità della popolazione. Stiamo divenendo, anzi siamo, la prima regione per donazioni in tutta Italia».

Tra tanti successi, pensa mai ai pazienti che non ce l'hanno fatta?

«Assolutamente sì, anzi spesso si ricordano di più gli interventi che non sono andati bene rispetto agli altri, seppur molto più numerosi. L’obiettivo è cercare di fare sempre meglio, capire cosa non ha funzionato, ma anche acquisire nuovi strumenti per evitare determinate situazioni. La ricerca resta fondamentale mentre aumenta la complessità degli interventi».

Lavorare sulla soglia che separa vita e morte, vi cambia?

«Diamo meno importanza alle cose futili, ma ho capito per esperienza che questo atteggiamento va monitorato, perché le persone con cui viviamo ragionano - giustamente - in tutt’altro modo».

Esistono opzioni al trapianto, rispetto a quello da essere umano?

«Per sopperire alla carenza di organi, ora è possibile riparare quelli in condizioni non ottimali. Tradotto: gli organi vengono aggiustati per funzionare bene dopo il trapianto. È un meccanismo in continua evoluzione che riguarda il 30-40% dei casi. Nel futuro probabilmente questi organi verranno ricondizionati con terapie cellulari. Riguardo all’uso di organi animali nell'uomo, la ricerca è molto attiva ma sono realtà che devono affrontare ancora fasi sperimentali. Un’attesa di anni, dunque, anche se la scienza ci meraviglia, anticipando spesso le nostre previsioni».

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