Rimini. Fuga dalla Rsa, lo psicologo: "Anziani soli"

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Fuggita a 81 anni da una casa di riposo di Faenza, ha preso due treni, sfidando gelo e incognite, per tornare nella pensione di Igea Marina dove aveva trascorso vacanze spensierate. Ne parliamo con il 32enne di origine lucana Gianpiero Antenori, psicologo che, lavora per la cooperativa “Il cigno” anche in Residenze sanitarie per anziani.

Antenori, perché fuggire dalla Rsa, pur non avendo subito maltrattamenti?

«Per spiegarcelo, bisogna puntare i fari sulla caratteristica principale della terza età, ossia il cambiamento da fronteggiare su molteplici dimensioni. Da quella corporea alla dimensione sociale in quanto invecchiare significa anche perdere le relazioni che avevano caratterizzato l’età adulta, non solo perché si assiste alla morte di tanti amici o si esce meno di un tempo, ma anche per l’isolamento innescato dalla pandemia».

Per gli anziani cosa rappresenta?

«Trasferirsi in una Rsa rappresenta l’ennesimo mutamento, stavolta nella sfera esterno-ambientale. Non è semplice uscire dalle mura domestiche per ritrovarsi in un contesto nuovo da affrontare attingendo a risorse ulteriori. Anche lasciare le proprie cose, a parte qualche foto incorniciata, è una ferita dolorosa perché negli anni creiamo la nostra identità legandola a doppio filo anche agli oggetti e agli spazi: dalla cucina dove preparare le ricette di famiglia a quel divano dove schiacciamo un pisolino dopo pranzo. La funzione dei ricordi suona quindi come protettiva e identitaria. Allontanarsi equivale a sentirsi violati nella propria identità col rischio di non riconoscersi più».

Ritrovarsi in una Rsa può essere vissuto come un tradimento da parte dei familiari?

«In realtà è una percezione propria del familiare, è per lui che entra in gioco il senso di colpa, anche se la residenza sanitaria è uno spazio sicuro con presenza di personale qualificato h 24. Spesso ci si sente costretti a scegliere l’opzione Rsa a seguito di un ricovero in ospedale o un peggioramento improvviso della salute del genitore. Per lui al contrario il cambiamento della dimensione sociale è già avvenuto: vede poco i figli se abitano altrove e lavorano, mentre, archiviato il Covid, nelle Rsa i contatti non mancano».

La pandemia ci ha messo il carico da dieci?

«È stata fatale per giovani e anziani impedendo le visite per motivi di sicurezza. Con un’eccezione che va riconosciuta alle case di riposo, dove gli operatori sono stati sempre presenti».

La signora in fuga si è diretta nel luogo delle vacanze: esiste una bussola del cuore?

«Si torna dove si è stati felici, il nostro cervello riserva particolare spazio alle emozioni perché ognuno di noi è la sua storia. Il che è ancora più vero per un anziano che vive un presente fatto solo di solitudine e mancanze. Basti pensare che nei casi di deterioramento cognitivo persone, che non ricordano neanche il loro nome, sono in grado di ripetere ogni dettaglio di una scampagnata serena organizzata decenni prima».

Piuttosto che tornare nella casa di riposo, la nonnina in fuga si augurava la morte. In queste strutture sono frequenti i casi di suicidio?

«No, risultano molto rari. Alla base di quelle parole si legge piuttosto il rifiuto dei cambiamenti e la messa in atto di meccanismi di difesa».

Fonte di malessere è spesso la mensa.

«Il cibo è legato ai ricordi, oltretutto in Romagna vige una cultura gastronomica importante, ma è normale che la prospettiva cambi in un contesto residenziale dove i pasti sono spesso consegnati da un servizio esterno. Senza dimenticare che molti ospiti hanno una dieta elaborata dal dietologo per tenere a bada diabete o pressione alta».

In tanti denunciano notti da girone infernale con pazienti che strillano invocando gli angeli.

«Occorre rivedere l’organizzazione delle strutture, delineando gli spazi in base alla tipologia di utenza e riservando zone separate per i pazienti con Alzheimer».

Per allentare la sofferenza, è utile attivare sinergie con realtà locali e scuole?

«Solo un territorio che comunica è un territorio efficace, va percorsa una strada che intrecci la sfera privata e pubblica non solo coinvolgendo la famiglia ma anche contando su un’equipe di professionisti per attività sanitarie, fisioterapiche e progetti educativi di animazione. Attività mirate che potenziano gli aspetti legati alla memoria o al linguaggio sotto forma di gioco. Ancor più importante è far sentire importante l’anziano che si sente messo ai margini della società».

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