Rimini e il rifugio fantasma: "La mia infanzia sotto le bombe"

Sono passati più di 77 anni, ma certe esperienze restano indelebili e ti accompagnano per l’intera esistenza anche se le si è vissute quando si era bambini. Le bombe che esplodono, la perdita della nonna che facendole scudo con il corpo le ha salvato la vita, l’uccisione a sangue freddo di alcune persone, Luciana Torri le ha ancora davanti agli occhi come se il 19 settembre 1944 fosse ieri.

È Daniele Celli, disegnatore riminese 60enne con la grandissima passione per la ricerca (sta ricostruendo la storia dell’aeroporto e censito tutti coloro che hanno preso il brevetto di volo dal ’900 al 1943 del circondario riminese in un libro di cui ha scritto qualche capitolo) a spolverare dall’oblio una pagina tragica della nostra città, con un lieto fine testimoniato per la prima volta dall’unica superstite in vita di quello che potremmo ribattezzare il “Rifugio Bianchini”. Una sorta di “rifugio fantasma” o meglio sconosciuto ai più improvvisato durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il rifugio “fantasma”

«Con il sopraggiungere del fronte, abbiamo lasciato la nostra casa, ma, dopo vari trasferimenti tra i rifugi presenti sul Colle di Covignano, siamo tornati sui nostri passi e abbiamo trovato riparo nella cantina dei Bianchini. Quando siamo arrivati noi, erano già presenti diverse persone, di vari nuclei familiari: i Ghinelli, i Tosi, c’era anche la famosa “Dora” con le sue “donnine”, oltre a diversi soldati tedeschi comandati da un ufficiale molto severo» ricorda Luciana Torri, classe 1939 che tutti i riminesi conoscono per il negozio di abiti da sposa che porta il suo cognome all’angolo fra via XX Settembre e via Guerritti: «Nella cantina i militari avevano sistemato una postazione radio e sopra il rifugio, o poco lontano da lì, c’era una postazione antiaerea. Uno di quei soldati ci aveva preso in simpatia, in Germania aveva due figlie piccole e si era impietosito vedendo me e la mia sorella minore, nata nel 1941. Una volta ci ha dato una fetta di pane e per quel gesto era stato severamente rimproverato dal suo comandante. I tedeschi se ne sono andati il giorno prima che il rifugio venisse colpito. Mia mamma mi ha raccontato dopo la guerra che era stato proprio quel soldato a suggerire ai miei genitori di andare via da quella posizione: “qui tutto kaput” aveva detto avvisandoli. Le due bombe che il 19 settembre hanno colpito il rifugio, lanciate da un aereo verso la metà della mattinata, hanno ucciso gran parte degli occupanti. I miei genitori e mia sorella, che si trovavano vicini all’ingresso, si sono salvati. Io invece, che ero nella parte più profonda della cantina con mia nonna materna Teresa Giovanardi, sono stata sbalzata a terra dallo spostamento d’aria generato dall’esplosione e la nonna è rimasta uccisa sul colpo».

Salvata dai latrati del cagnolino

Quel giorno l’attività aerea della Desert Air Forces, che operava in supporto alle truppe lungo tutta la linea del fronte, aveva effettuato 118 missioni, composte complessivamente da 564 sortite, cioè missioni di un singolo aereo - spiega Celli dopo aver approfondito studi e ricerche -. La Daf era composta da caccia bombardieri che operavano generalmente sotto la direzione di postazioni radio ubicate a terra in prossimità della linea del fronte, e da bombardieri medi. Si possono fare alcune ipotesi di quale potesse essere l’obiettivo degli aerei che hanno colpito il rifugio: proprio la postazione antiaerea posizionata lì vicino, la postazione radio individuata il giorno precedente mediante triangolazioni oppure molto semplicemente un lancio di bombe mal riuscito che doveva colpire un altro obiettivo della stessa zona. Anche l’attività dell’artiglieria alleata era stata notevole: il 19 settembre erano stati infatti sparati oltre 35mila colpi tra Rimini e San Marino, una vera valanga di fuoco.

Ma torniamo a Luciana. Molto probabilmente è stata come detto la nonna che con il suo corpo ha fatto da scudo alla nipotina, che era stata comunque colpita da numerosi frammenti di minuscole schegge in varie parti del corpo. Ma il peggio non era ancora finito per lei. Ad appena sei anni era rimasta sola e al buio e c’erano voluti ben due giorni prima che qualcuno la liberasse da quella terribile situazione.

«È stato poi Bracco, il cane di famiglia rimasto di fronte all’ingresso della cantina, a salvarmi la vita. I miei genitori mi avevano dato per morta e se ne erano andati a cercare riparo da un’altra parte, ma il suo continuo abbaiare aveva insospettito alcuni militari alleati, che hanno capito cosa poteva essere successo. Dopo il crollo della volta, da quella cantina sono uscita viva solo io. I militari mi hanno recuperata e portata in un centro di medicazione, non ricordo se in un ospedale da campo o in un vero ospedale. Qualcuno ha assistito al mio recupero ed è andato ad avvertire mio babbo, senza dargli la certezza che quella bambina fosse proprio sua figlia. Lui è venuto subito a cercarmi e mi ha portato a casa in bicicletta. Rievocando questa storia, mi ha sempre detto che ero stata portata oltre il fiume».

Fiume che non poteva essere il Marecchia, perché il 21 settembre la linea del fronte si era spostata di pochi chilometri a nord di Rimini, tra Rivabella e Viserba. Quindi si doveva trattare del torrente Marano e molto probabilmente era stata ricoverata all’ospedale di Riccione o in una delle colonie marine presenti lungo la litoranea utilizzate dagli alleati a tale scopo.

La strage a sangue freddo

Prima di quel 19 settembre, nelle fasi culminanti della battaglia per la conquista del colle di Covignano, in quella stessa grotta Luciana Torri visse un altro orribile episodio che non dimenticherà mai.

«Una delle signore presenti nella cantina aveva partorito da poco e il bebè (non ricordo se fosse un bimbo o una bimba), probabilmente disturbato dal forte rumore della battaglia, piangeva molto spesso. I suoi vagiti disturbavano l’operatore addetto alla radio tedesca impedendogli di ascoltare correttamente i messaggi e l’ufficiale in comando aveva pregato la signora di farlo smettere. Redarguita dall’ufficiale, cercava di tenerlo al seno ma ciò non era stato sufficiente per evitare il pianto e l’uomo allora le ordinò di andarsene in un altro rifugio: cosa impossibile con quello che stava succedendo fuori. A un certo punto, persa la pazienza, il militare ha impugnato la pistola e ha ucciso prima il bimbo e subito dopo la madre che aveva iniziato a urlare. Un anziano si alzò inveendo contro l’ufficiale, gli si avvicinò e prendendolo per il collo gli urlò “Cus fe asaséin” (Cosa fai assassino): un attimo dopo, l’ho visto cadermi addosso, fulminato anche lui da una pallottola. Dalle ricerche al cimitero è poi emerso che si trattava di Giuseppe Rughi, di anni 50» rivela la donna: «Il mio vestito è rimasto imbrattato del suo sangue. Se ricordo bene, doveva essere un componente della famiglia ad “Gnoli”. Quelle scene mi sono rimaste impresse nella memoria e per molto tempo mi capitava di svegliarmi di soprassalto intenta a ripulirmi il vestito. Ci sono voluti decenni per lenire questo brutto ricordo».

“Una targa per le vittime”

Fino a ora purtroppo non è stato ancora possibile dare un nome a due persone e ricostruire compiutamente una delle tante tragedie della guerra.

Il 19 novembre 1974 Luciana Torri scrisse una lettera all’allora sindaco di Rimini Nicola Pagliarani proponendo l’apposizione di una lapide nelle vicinanze di quel rifugio con tutti i nomi dei caduti. «Mio babbo aveva svolto delle ricerche andando dalle famiglie per raccogliere tutti i nomi, ma la richiesta purtroppo non ho avuto seguito» rivela la donna.

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