Rimini, "Come è dura sognare per i figli degli immigrati"

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«Siamo stranieri in Italia e turisti a casa nostra». Mohamed Hammar ha 31 anni e vive a Rimini da 12, da quando ha lasciato la sua famiglia a Civitella, nel Forlivese, per iniziare a lavorare stagionalmente come pasticciere. «Non è facile – spiega – viviamo come in bilico, a metà tra due identità». Hammar è il responsabile del Gruppo giovani musulmani di Rimini. È originario di una città del Marocco poco lontana da Casablanca, ha frequentato le scuole in Italia, dice che gli insegnanti sono «bravissimi, aiutano tantissimo i ragazzi e le famiglie nell’integrazione», ma con gli altri adulti, quando non sei più un bambino, non è facile. «Perdersi è semplice, quando hai 14 anni se non hai un punto di riferimento...». Allude allo spaccio e alla delinquenza, perché sono fenomeni che preoccupano e spaventano le comunità musulmane degli espatriati, di chi ha lasciato il Paese d’origine per cercare fortuna in Europa. Perché, come a guardare un american dream al contrario, il sogno di fare carriera, di fare quella che chiamiamo “scalata sociale”, è ancora un lusso che pochi di loro si possono permettere.

Hammar, fino a quando gli “italiani di seconda generazione” vanno a scuola?

«Purtroppo in molti non finiscono la superiori e pochissimi vanno all’università. Chi arriva alla fine delle superiori inizia subito a cercare un lavoro per aiutare la famiglia. Anzi, si inizia a fare dei lavoretti già da ragazzini. Qui non siamo ricchi. La comunità musulmana (in prevalenza marocchina, a Rimini sono 2.500, ndr) è una comunità operaia, siamo gente che lavora in fabbrica, nell’agricoltura, stagionali e bottegai. Noi però cerchiamo di incentivare chi ha voglia di fare l’università facendo presente che esistono anche le borse di studio. È però purtroppo difficile per un ragazzino figlio di immigrati dire “da grande farò l’avvocato”. Pensano “sono straniero, non ho possibilità” e molti rinunciano in partenza».

Quanto è importante la scuola come via per l’integrazione?

«La scuola è fondamentale, io ho avuto una bella esperienza ed è un punto di riferimento anche per le famiglie. A volte però capita che i genitori siano molto legati al Paese d’origine e non vogliono integrarsi, e in questi casi succedono due cose: o la seconda generazione aiuta la prima oppure possono nascere i conflitti».

È un fattore che avvicina alla delinquenza?

«Sì, perché spesso quando si è stranieri non si hanno punti di riferimento, e se con la famiglia non si va d’accordo o se la famiglia non c’è, oppure si lascia la scuola, si può iniziare a delinquere, allontanandosi anche dalla comunità. Alcuni hanno i genitori in Marocco, e i ragazzi che vengono lasciati soli, magari affidati a un parente o uno zio, sono preda facile. Poi se sono poveri e hanno bisogno di soldi...».

La vostra comunità cerca di fare qualcosa?

«Sì, le nostre guide religiose parlano con i genitori cercando di aiutare i ragazzi sostenendoli per non farli finire nella delinquenza. La comunità contatta anche i servizi sociali quando c’è necessità».

Oltre alla scuola, quali sono i luoghi di integrazione?

«Lo sport sta diventando importante, anche se da noi, nei Paesi musulmani, non usa praticare sport. Anche lo studio è un momento di integrazione».

Discoteche e uscite serali nei locali per voi non sono un luogo di incontro?

«Come musulmani non è possibile andare in discoteca, bere alcol e mangiare certi tipi di carne. I ragazzi e le ragazze però hanno punti di ritrovo in cui si vedono per fare festa, nelle case oppure negli spazi comuni, ma maschi tra maschi e femmine tra femmine. Con gli italiani quindi, i ragazzini magari non possono uscire insieme, ma possono fare sport e studiare dopo la scuola».

La vera sfida oggi qual è?

«Che un ragazzino dica “anche se sono straniero, da grande posso andare all’università e fare quello che desidero” senza che si freni in partenza».

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