«Non posso dirlo adesso. In questo momento non vedo l’ora di salire su una bicicletta e incontrare gli amici. Frequenterò ancora la montagna, ma valuterò con calma se e quando tornare a fare alpinismo». Gianni Ghinelli risponde così, quando gli si chiede se in futuro si cimenterà ancora nella conquista delle vette alpine. Ha 30 anni, è di Rimini, esercita come avvocato nello studio legale di famiglia ed è dottorando di ricerca in procedura civile all’Università di Bologna. È lo scalatore che venerdì è precipitato nel vuoto per diversi metri mentre arrampicava sul monte Civetta, a causa di un chiodo sganciatosi dalla roccia. Il lungo salto nel vuoto, frenato dal compagno di cordata appeso in sosta, lo ha fatto sbalzare violentemente contro la montagna, procurandogli la rottura di otto costole.
Ghinelli, cosa è andato storto?
«Quando arrampichi puoi utilizzare i chiodi già piantati nella roccia (una sorta di passanti al cui interno va inserito il moschettone con la corda a cui sono legati gli alpinisti,
ndr) oppure piantarli tu. Io avevo utilizzato un chiodo già presente, era lì da chissà quanti anni. Ho verificato che fosse solido, e lo era, quindi ho messo il rinvio, la corda, e sono passato oltre. Però la montagna era bagnata, friabile e ghiacciata, così sono scivolato. Mi aspettavo che il rinvio e il chiodo sottostanti bloccassero la caduta, invece continuavo a cadere. Ho avuto il tempo di pensare: “Ma quanto sto precipitando?”».
E quindi poi è finito contro la roccia...
«Sì, a un certo punto la caduta si è fermata, il mio compagno è riuscito a bloccare la corda, ma io sono volato fin sotto al punto di sosta dove lui mi stava facendo sicurezza. Sarò volato per circa 10 o 15 metri, sbattendo contro la roccia lateralmente. Ho urtato anche la testa, ma per fortuna il casco ha attutito il colpo, rompendosi. E sì, poi mi sono ritrovato con otto costole rotte, ma mi sento molto fortunato. Poteva andarmi decisamente peggio».
Ha avuto molta paura?
«Soprattutto perché mi sono reso conto di tutto quello che stava succedendo, del fatto che stavo precipitando ben più di quello che prospettavo ed ero consapevole che l’impatto sarebbe stato violento. Quando arrampichi pensi sempre “Cosa succede se cado?”, sai che c’è il rischio di cadere, ma provi a proteggerti per evitare conseguenze gravi, utilizzando una serie di tecniche imparate in anni di frequentazione della montagna e nei corsi Cai. E io invece continuavo a precipitare».
Tornando indietro avrebbe accortezza maggiore?
«No, il chiodo che si sgancia non era prevedibile. È come se andando in motorino (cosa che non faccio perché mi fa paura) ai 40 chilometri orari con il limite dei 50, un tir invade la strada. Non ci puoi fare niente. Ma sono grato alla fortuna, al mio compagno che è stato pronto a reagire e soccorrermi, così come agli operatori e ai medici del Soccorso alpino. Hanno dovuto aspettare una mezz’ora per recuperarmi per colpa delle nuvole che impedivano la visuale, ma appena è stato possibile mi hanno tratto in salvo. Mi sento miracolato».