Riccardo Prati, lo scrittore forlivese che gira il mondo

Un’isola delle Canarie: buon cibo, caldo, prezzi contenuti, qui poi il Covid fa meno paura. Riccardo Prati, forlivese, vero “cittadino del mondo”, da quattro mesi si trova a Fuerteventura, e idealmente scruta nelle vetrine delle librerie italiane la sua opera prima, Una vita in viaggio (Alpine Studio editore). Sono migliaia i chilometri al suo attivo e ben 120 i paesi visitati, mentre a causa del Covid Prati ha dovuto rimandare il sogno di raggiungere l’Australia in moto, attraverso l’Europa e l’Asia.

«Ed è la prima volta che mi fermo per tanto tempo in un posto – spiega ridendo –, ma sto lavorando a un secondo libro con cui continuare a parlare dei viaggi e degli incontri fatti da quando ero giovane a oggi, che di anni ne ho quasi sessanta. Amo molto leggere, ed è stata una bella spinta per me pensare di avere un’opera firmata da me in quelle librerie in cui passo le ore ogni volta che torno a casa. Poi, naturalmente, volevo condividere i miei viaggi: avevo tanti appunti, così l’anno scorso, in un mese in Thailandia, ho scritto i paragrafi che mancavano. La cosa più difficile? Il lavoro di editing, che ha messo in discussione tante mie certezze, ma mi ha anche insegnato molto».

Cosa cerca in viaggi come questi?

«Tento sempre di adattarmi agli stili di vita dei luoghi, per esempio ricorrendo a Couchsurfing, una piattaforma che permette di dormire a casa delle persone e vivere quindi un’esperienza del tutto diversa da quella che si fa stando in albergo. Non credo che si possa mai capire completamente il Paese dove stai, ma viverlo un po’ più “da dentro” permette di fare amicizie e conoscere meglio le cose. Belli, certo, templi o panorami, ma il vero valore aggiunto del viaggio sono i contatti».

E i pericoli, per un viaggiatore solitario?

«Sto sempre molto attento, mi do una serie di regole, che seguo… e poi ormai ho un’esperienza, e anche un po’ d’occhio, che a vent’anni non avevo. Poi, gli imprevisti capitano: la malaria in Zimbabwe, o le faide tribali in un trekking in Etiopia. Un caso a sé, l’esperienza in Palestina da volontario, l’anno scorso: ecco, da lì sono andato via anche prima del tempo, un po’ a causa del Covid, un po’ perché ho avuto paura di chi era pronto a farmi del male perché cercavo di difendere quella che per me era la parte debole. Però viaggio con poco e con il sorriso, e soprattutto pensando che le persone non sono ostili».

Fra i tanti paesi visitati ce n’è uno speciale?

«Amo l’Etiopia, la Sierra Leone, dove sono stato da volontario, l’India, l’Oriente, il luogo dove mi trovo più a mio agio per gli aspetti umani, filosofici... ma se penso a dove vivere, quella è la Romagna. È vero che dopo un mese a Forlì non vedo l’ora di rifare lo zaino, ma nella mia città ogni luogo ha una storia che mi riguarda».

Avrà la casa piena di souvenir…

«In realtà li odio: semmai prendo cose che hanno senso per me e che rappresentano quel luogo: uno sgabello mezzo rotto in Dancalia o una croce copta in Etiopia».

Molti la invidieranno.

«Ma io mi definisco un… disadattato di lusso: all’estero sono un corpo estraneo, che non verrà mai accettato completamente. E in Italia, anche perché rifiuto certe pratiche e convenzioni, non mi sento davvero integrato. Però faccio quello che mi piace e mi va: anche se neanche gestire tanta libertà è facile, e ci sono prezzi da pagare. Certo, ho la fortuna di poter essere quello che sono, ma so anche che vivendo così non ci sono certezze, né punti di riferimento. Per me però, questa vita è l’unica possibile, e non ne vorrei un’altra».

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