Ravenna: "Non chiamatele baby gang, alimenta il senso di appartenenza di chi cerca 15 minuti di celebrità"

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Sono formati da giovanissimi, spesso minorenni, e nelle cronache figurano con l’appellativo di “baby gang”: i gruppi di adolescenti che si rendono protagonisti di reati e episodi di microcriminalità sono un problema con cui Ravenna e i suoi lidi stanno facendo i conti sempre più spesso, benché i report più recenti, come quello pubblicato nell’autunno dell’anno scorso dall’osservatorio Transcrime, parlino di una presenza ancora «sporadica» nel territorio provinciale. La percezione da parte dell’opinione pubblica, tuttavia, è elevata, e le baby gang restano comunque un tema sul tavolo delle forze dell’ordine.
Ma la riflessione sul fenomeno, secondo Gabriele Raimondi, presidente dell’Ordine degli psicologi dell’Emilia-Romagna, dovrebbe partire innanzitutto dalla terminologia: «Continuare a usare quel termine – spiega – può sollecitare un senso di appartenenza a questo tipo di gruppi, spingendo non solo all’emulazione, ma anche all’identificazione. I ragazzi tendono a identificarsi per appartenenza a categorie, e fare parte di una gang potrebbe essere per loro un elemento importante a livello identitario».
Per Raimondi questi comportamenti sono da inquadrare in una prospettiva inedita rispetto a quanto avveniva in passato: «Che piaccia o no, purtroppo la violenza ha sempre accompagnato l’umanità – dice –. Ma ciò che mette in difficoltà nel leggere il fenomeno ora, è che tali episodi sembrano non essere indirizzati verso obiettivi precisi, mentre fino a pochi decenni fa la violenza aveva sempre un indirizzo chiaro. Insomma, a volte sembra di trovarsi di fronte ad atti fini a se stessi, ed è questo che li rende per certi versi sconcertanti».
Non sempre poi, si può liquidare la questione affermando che a comporre queste compagnie siano solo adolescenti provenienti da contesti sociali disagiati: «Spesso alla base ci sono difficoltà relazionali, una scarsa attenzione in casa – prosegue lo psicologo e psicoterapeuta –. E qui subentra la responsabilità degli adulti, che non sono in grado di garantire una adeguata educazione emotiva». Un ruolo in tutto ciò è sicuramente rivestito dalla crisi delle famiglie, ma anche l’istituzione scolastica non si trova in condizioni migliori. Un tema, questo, che Raimondi conosce bene, essendosi occupato specificamente di psicologia scolastica: «Nella scuola – sostiene – non ci sono spazi in cui sperimentare le relazioni, e non è detto che i ragazzi poi ci riescano da soli. Occorrerebbe offrire loro occasioni di alfabetizzazione emotiva». Magari portando a buon esito una battaglia che l’Ordine sta portando avanti da tempo: «Da anni spingiamo per la presenza degli psicologi a scuola – sottolinea Raimondi –. In altre regioni c’è già, ma in Emilia-Romagna manca ancora una legge ad hoc. Si tratterebbe di un investimento importante per ridurre certi tipi di comportamenti».
Ma quale strada percorrere quando l’adolescente è ormai entrato nel novero dei cosiddetti “noti alle forze dell’ordine”? «Gli andrebbe offerta la possibilità – aggiunge Raimondi – di costruire una narrazione di sé che non si identifichi esclusivamente con il singolo episodio negativo». E allo stesso tempo, andrebbero proposti modelli positivi: «Siamo una società molto connessa, ma che sente fortemente anche il tema dell’isolamento, e quindi l’idea di farsi notare, accedere ai famosi 15 minuti di celebrità, per qualcuno può diventare preziosa. Ma bisognerebbe dare più visibilità ai giovani che sono la parte della società che purtroppo resta spesso invisibile».

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