Raj Patel: La lotta per un cibo nuovo è una lotta di libertà

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FORLI'. Parlerà di “Disuguaglianze e uguaglianze” (mercoledì 25 alle 18.30 alla Chiesa di San Giacomo), e il cibo c’entra parecchio, anzi dipende tutto da lui: dalla sua abbondanza o dalla sua assenza, dalla sua salubrità o insalubrità, dipende la vita dell’uomo. Raj Patel, nato a Londra 48 anni fa e oggi cittadino statunitense, è un economista, accademico e giornalista che dello studio della crisi alimentare mondiale ha fatto il suo argomento di studio, e anche di attivismo. Contro il sistema capitalistico, che secondo lui non è ineludibile, contro la disparità di genere che, racconta, oggi viene contrastato anche dalle femministe di molti movimenti agricoli e contadini che per l’uguaglianza lottano attraverso la ricerca di un sistema alimentare diverso, migliore, più equo.
Il cibo non è tutto uguale, c’è quello che crea conoscenza, condivisione, crescita, e quello che genera sfruttamento, inquinamento, disuguaglianza. Lei spesso cita i dati relativi all’aumento contestuale di obesi e affamati sul pianeta, questi ultimi in netto aumento da un decennio. Come vanno letti questi dati?
«L’aumento della malnutrizione e dell’obesità può essere meglio interpretata come la perdita della libertà. Per i più affamati, la malnutrizione è un prodotto della povertà, del conflitto e del cambiamento climatico. Per le persone sovrappeso, una dieta ricca degli ingredienti che portano profitto: sale, grasso, zucchero. Ma in entrambi i casi, la distruzione della comunità e della rete della vita di cui facciamo tutti parte è direttamente connessa al modo in cui coltiviamo e distribuiamo il cibo. In questo modo, il capitalismo, decide come viene distribuita la libertà. Se sei benestante, puoi mangiare cibo sano, in compagnia, con abbastanza tempo per condividere e godere. Se non lo sei, allora consumi i tuoi pasti in movimento, trovando soddisfazione da qualsiasi cosa trovi a portata di mano, con qualsiasi cosa sia poco costosa. Chi lotta contro l’alto costo della sostenibilità alimentare sta lottando per mantenere la propria libertà contro un sistema di mercato che invece la spazzerebbe via».
Oggi chi decide cosa mangiamo?
«Quando vai a un mercato e compri qualcosa d’impulso, quando tuo figlio ti tormenta per un dolcetto particolare, quando vedi prodotti che non hai tempo di cucinare, quando acquisti qualcosa che contiene più di cinque ingredienti, stai partecipando solitamente a un’economia alimentare nella quale le scelte non sono state fatte da te. Gli acquisti impulsivi nei supermercati sono estremamente controllati. Milioni di dollari e anni di studio sono investiti nel farti sentire come se tu avessi deciso di comprare una barretta di cioccolato alla cassa. Miliardi vengono spesi nella commercializzazione per i bambini. L’aumento delle ore nella giornata lavorativa, stile US, ci spinge a non cucinare i nostri pasti, e l’industria alimentare è prontissima a procurarci cibi ultra-trattati per salvarci il problema di sapere che cosa mangiamo. In ogni caso, se pensi che il mondo del cibo è fatto per te, ti sbagli. Nei loro gusti, nella loro mentalità, interessi e ignoranza i clienti moderni sono fatti per i loro cibo».
Il cambiamento climatico riguarda già, e di questo passo sempre di più, quello che produciamo e mangiamo. Lei ha fatto delle stime su quello che accadrà, di questo passo, nel 2050. Ce lo spieghi e ci faccia capire quali sistemi alimentari si prospettano se non ci sarà una inversione di rotta.
«C’è una gamma di scenari per il sistema alimentare nel 2050. Nel più estremo dei quali, i cereali più importanti produrranno quasi il 50% in meno per unità di superficie, siccome la popolazione globale raggiungerà i 10 miliardi. Per queste ragioni quello che c’è nel tuo piatto dipende dal sistema sociale in essere. Se continuiamo così, continuiamo in una direzione nella quale i ricchi continueranno a mangiare quello che vogliono, nella quale la fame aumenta nella quale le malattie epidemiche che stanno già distruggendo i nostri sistemi alimentari si scatenano».
Ma per cambiare cosa è necessario fare e può valere l’azione di singoli o piccoli gruppi?
«La dieta mediterranea è certamente un modo per diminuire la propria impronta carbonica. Si potrebbe obiettare che visto che nessuno ti metterà cibo in bocca a parte te stesso, tutti individualmente hanno il potere di prevenire il cambiamento climatico. Ma è costoso mangiare cereali integrali, cibo fresco e in modo sano. E se non te lo puoi permettere, in base al modello del potere individuale del consumatore, non hai nessun altro da incolpare per il cambiamento climatico oltre a te stesso. Penso che l’azione individuale riguardo la dieta sia importante, ma è più importante cambiare la situazione attuale in modo che tutti si possano permettere di compiere quest’azione, e tutti desiderano questo cambiamento. Questo implica un’azione politica organizzata contro l’industria alimentare e le sue politiche. E questo è successo non attraverso il boicottaggio da parte dei consumatori ma con la creazione di potere politico tramite movimenti sociali».
Ci sono già molti movimenti che contestano il sistema capitalistico del cibo al quale siamo abituati. Via Campesina ad esempio, o Slow Food che è nata in Italia e altri. E’ solo utopia o un sistema alternativo è possibile?
«Ci sono già diversi sistemi alternativi, sia nelle diete variegate e già adattate al cambiamento climatico del progetto “Soils, Food and Healthy Communities” in Malawi (progetto di partecipazione contadina che usa metodi agroecologici e garantisce la sicurezza alimentare dove viene praticato, ndr), o la distribuzione di cibo nelle comunità nere di Detroit. La domanda è se il resto di noi è capace di organizzarsi in modo da fornire anche una sanità migliore, benessere e gioia alle nostre comunità».
Lei connette spesso il sistema del cibo industriale alla disparità di genere, che in effetti resta un fattore critico in società anche considerate evolute. Perché? Quale ruolo potrebbero avere le donne per il cambiamento?
«Vivo in Texas, dove nel 1883 abbiamo avuto il grande sciopero dei mandriani in alcuni dei più grandi allevamenti di bestiame. I lavoratori dissero “Non lavoreremo per meno di 50 dollari”. La loro seconda richiesta fu che “Anche i cuochi bravi dovrebbero ricevere 50 dollari al mese”. Questi lavoratori capirono che la manodopera non può esistere senza il lavoro di assistenza che lo sostiene. Un bravo mandriano non può lavorare a meno che non ci sia un bravo cuoco. Durante i loro scioperi, entrambi i tipi di lavoro erano fatti da uomini, ma il punto è: non ci può essere giustizia se c’è parità sociale in un settore e disparità sociale in un altro. L’insicurezza alimentare negli Stati Uniti come nel Malawi è accompagnato dalla disparità di genere e, troppo spesso, da violenza domestica. Non è possibile porre fine alla fame senza eliminare la patriarchia. In questo, gli uomini devono riconoscere come siamo stati attuatori di ingiustizia attraverso il privilegio di crescere in una società che favorisce gli uomini piuttosto che le donne. Lo faremo non perché siamo uomini che odiano se stessi, ma perché siamo persone che amano la giustizia e che preferirebbero essere liberi dalla maledizione di una mascolinità tossica piuttosto che metterle in atto generazione dopo generazione. In questo, prendiamo spunto dai movimenti femministi che hanno già chiaramente spiegato come dovrebbe essere la parità. In prima linea ci sono quelli che stanno cercando la giustizia nel sistema alimentare. Come “La Via Campesina”, che richiede parità nelle decisioni intorno ad un nuovo sistema alimentare. Hanno capito che prima di tutto questa parità deve essere una parità tra i paesi del G7 e il resto del pianeta. Ma le disparità geopolitiche non sono le sole ad essere importanti. Mentre le idee della sovranità alimentare venivano discusse tra i contadini, la centralità della disparità tra sessi è diventata chiara. Questi giorni, le voci più forti per la parità fra sessi sono quelle dei movimenti i cui membri sono contadini, e donne contadine in particolare.
In Europa in questo momento storico dilaga un sentimento di sovranità nazionale che certo non è positivo. Sovranità alimentare invece suona meglio?
«È vero che il termine sovranità può riferirsi ad uno sciovinista potere collettivo, come succede sempre più in Europa. Ma l’idea della sovranità alimentare è che le comunità creino le loro politiche alimentari in opposizione allo sfruttamento, con una base di parità che conferma queste azioni. Negli Stati Uniti, la sovranità alimentare è a volte chiamata “giustizia alimentare”. Non vado pazzo per la terminologia, ma credo che i significati siano importanti. avere la sovranità alimentare significa organizzarsi per porre fine alla fame per tutti, non solo per pochi, e senza pregiudicare i diritti di altre comunità di fare lo stesso. In questo modo, la sovranità alimentare può offrire un modello che celebra la comunità locale, e riconosce, come l’Europa ha fatto nei suoi momenti migliori, che tali comunità siano in mutazione continua, sempre interdipendenti, e sono rese più ricche quando le relazioni tra di esse sono basate non sullo sfruttamento ma sull’equo scambio».

BIOGRAFIA. Raj Patel, oltre ad aver e un curriculum accademico sterminato, ha lavorato alla World Bank, alla World Trade Organization e alle Nazioni Unite, ed è lavorando ai vertici in queste organizzazioni che ha sviluppato il suo pensiero critico nei confronti delle stesse, fino a partecipare nel 1999 alle manifestazioni di protesta, in occasione della conferenza della World Trade Organization a Seattle. Ha attraversato i continenti per i suoi studi, ha lavorato in Zimbabwe e in Sudafrica, da una decina d’anni è cittadino statunitense, vive in Texas. È membro di Food First, Istituto per la Politica del Cibo e dello Sviluppo che si propone di eliminare le ingiustizie che causano la fame. Nel suo libro “ I padroni del cibo” edito in Italia da Feltrinelli, Raj Patel rimarca un concetto che riporta anche in questa intervista fatta in questi giorni, prima del suo arrivo a Forlì in occasione del festival del Buon Vivere. E cioè che che, nonostante oggi sulla Terra si produca più cibo che in qualsiasi epoca del passato, circa 800 milioni di persone soffrono la fame e nello stesso tempo quasi altrettante sono sovrappeso. Affamati e degli obesi sarebbero due facce della stessa medaglia, di un sistema alimentare che funziona come una catena di montaggio, basato sullo sfruttamento e sul minor costo per la massima resa. «Le multinazionali che ci vendono il cibo, interessate esclusivamente al profitto, influenzano e impongono il modo in cui mangiamo e in cui pensiamo al cibo», secondo Patel non è questo l’unico sistema possibile.

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