Quando il prete non riesce a separare il vangelo dalla politica

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Siamo nel 1919. La turbolenta situazione sociale ed economica del Paese fa saltare i coperchi della vecchia politica e nello sfaldamento delle antiche alleanze molti avvertono l’esigenza di un partito rappresentativo dei cattolici. A proporlo è don Luigi Sturzo (1871-1959), un sacerdote di Caltagirone che il 18 gennaio dà vita ad un progetto politico di ispirazione cristiana con il nome di Partito popolare italiano. Fino ad ora le nostre “Pagine di cronaca riccionese dei primi anni del Novecento” hanno parlato sempre e solo dei socialisti – non a caso la popolazione della borgata aderisce a questa organizzazione in maniera plebiscitaria –, ora, con la nascita della nuova aggregazione, abbiamo l’opportunità di spendere qualche parola anche sulle azioni politiche dei cattolici. A facilitarci nell’impresa ci aiutano le cronache de L’Ausa, antico settimanale diocesano impegnato a propagandare le istanze sturziane, e gli studi storici di Liliano Faenza e Piergiorgio Grassi. Partiamo dagli anni che precedono la Grande guerra. In quel periodo un ruolo decisamente importante nella storia del movimento cattolico riccionese lo svolgono due sacerdoti: don Giovanni Montali (1881-1959), parroco della «antichissima chiesa» di San Lorenzo in Strada sulla via Flaminia, e don Adello Tamburlani (1881-1953), un prete che non riesce a separare il Vangelo dalla politica. I due ecclesiastici all’inizio del secolo avevano aderito alla lega dei democratici cristiani fondata da don Romolo Murri (1870-1944), poi – uscito di scena il movimento – avevano continuato a diffondere la dottrina sociale del cattolicesimo tra i coloni, gli affittuari e i braccianti di San Lorenzino.

Nel luglio del 1912, in competizione con le “leghe rosse”, don Tamburlani aveva dato vita con i contadini di ispirazione cristiana ad una sorta di Lega “bianca” e nella tornata elettorale del 26 ottobre 1913 aveva divulgato gli obiettivi sociali e politici del suo progetto nell’entroterra riccionese, considerato la roccaforte dei «senzadio», termine usato dai clericali per indicare i socialisti. I quali, vista la “pericolosità” del sacerdote, avevano cercato di impedirgli con ogni mezzo il contatto diretto con i lavoratori della terra e quando ciò avveniva gli disturbavano sistematicamente i comizi con ondate di fischi (cfr. Liliano Faenza, Papalini in città libertina, Parenti Editore, Firenze, 1961). I cattolici, in quella circostanza, appoggiavano i candidati delle liste liberali, ma rimarcavano con vanto una propria autonoma linea politica. Era il pericolo “rosso”, con la sua accesa polemica anticlericale e con la sua capacità di accattivarsi il proletariato, che avvicinava i credenti ai moderati; anche se, in cuor loro, c’era la consapevolezza «che per impedire la scristianizzazione della gioventù e delle campagne fosse necessario sviluppare un’azione sociale che non solo arginasse “l’utopia socialista”, ma che li differenziasse maggiormente dai liberali» (Piergiorgio Grassi, Il movimento cattolico (1870-1926), Bruno Ghigi Editore, Rimini, 1978). Presupposti, questi, che a conclusione del sanguinoso conflitto europeo, venivano ripresi dal Partito popolare italiano e portati avanti tra mille difficoltà e ostacoli da don Tamburlani e da don Montali.

Nel 1919 la contrapposizione tra socialisti – anticlericali e rivoluzionari – e popolari – cattolici e democratici – torna a riaccendersi con maggiore vivacità. Aprire brecce e propagandare i postulati sociali della chiesa tra gli operai o tra i lavoratori del terziario, tutti inquadrati nelle Leghe “rosse”, per i seguaci di don Sturzo è un’impresa quasi impossibile. Quel tessuto sociale di riferimento è da sempre terreno fertile dei partiti di Sinistra e i socialisti, che in questo agitato periodo viaggiano con il vento a favore, non se la sentono di “dividerlo” con gli ultimi arrivati. E su di essi sfogano la loro forza numerica e organizzativa (cfr. P. Grassi, Il movimento cattolico (1870-1926), Ghigi, Rimini, 1978).

I cattolici, tuttavia, hanno uno strumento molto efficace che li avvantaggia nell’ambiente agreste senza farli scendere nelle piazze: la Cassa rurale. Spieghiamo l’arcano. I lavoratori della terra hanno esigenze specifiche da soddisfare; per esempio quelle di migliorare o di rendere più produttiva l’impresa agricola. Per far ciò necessitano di danaro, che spesso non possiedono. In loro aiuto si muovono sia le associazioni gestite dal partito socialista e affiliate alla Camera del lavoro, che le parrocchie; queste ultime, attraverso la creazione delle Casse rurali, forniscono prestiti agevolati ai propri aderenti con grande prodigalità.

A San Lorenzo in Strada – circoscrizione formata da 350 famiglie in gran parte mezzadri, operai e qualche pescatore per un totale di circa 2.000 “anime” – è fiorente la Cassa rurale interparrocchiale per gli agricoltori della frazione e per quelli di Casalecchio e Riccione. Retto da un consiglio d’amministrazione, «composto di persone di specchiata onestà e appartenenti alle diverse classi sociali», l’ente di credito svolge il proprio compito in maniera perfetta: ha un centinaio di soci e uno statuto che stabilisce che per godere dei vantaggi della Cassa «occorre essere maggiorenni e di piena capacità giuridica; offrire garanzia di onestà e praticare la religione cattolica» (L’Ausa, 1 maggio 1920). Caratteristiche che rendono la benemerita istituzione di San Lorenzo “il fiore all’occhiello dei popolari”, giacché, al momento del voto, è ovvio che l’affiliato sosterrà la lista cattolica. Insomma: prestiti e politica.

Istituita legalmente il 22 dicembre 1914 dal parroco don Giovanni Montali, la Cassa rurale interparrocchiale rimase inoperosa per tutto il periodo bellico, per la chiamata alle armi e la mobilitazione civile di gran parte dei soci. Riaprì nel 1919, dopo il riassetto degli uffici danneggiati dal sisma, e con la presidenza di Epimaco Mancini tornava a svolgere alla grande la sua mansione di mutuo soccorso per i coltivatori.

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