Pietre Miliari: Sex Pistols - Never mind the bollocks

Quante rivolte, in quel 1977. Politiche, sociali, musicali. Un anno cruciale, uno spartiacque che ha pesantemente condizionato la vita culturale e il costume degli anni a venire. L’anno della definitiva consacrazione del reggae come linguaggio “contro”, mentre la new wave spargeva i suoi prime semi e l’elettronica avanzava a grandi passi. Soprattutto, l’anno nel quale i Sex Pistols diedero alle stampe quello che si può considerare un disco storico, seminale, “Never mind the bollocks”.

Mai ascoltato niente di più devastante: non tanto per i suoni, sguaiati ma a tratti melodici, né per la velocità, nemmeno così eccessiva. A mettere paura era quella rabbia cieca, nichilista, inedita. Musica dall’indole rude e selvatica, figlia dell’irriverenza e della frustrazione, che suonava, per dirla con le parole di Jon Savage, “come un grandioso ‘vaffanculo’ rivolto all’Inghilterra”.

I Pistols, sempre in bilico tra aggressività e “distruttività”, erano mossi da una specie di furore dadaista, da uno spirito iconoclasta. I brani del gruppo inglese tendevano al colore strumentale, avevano un forte profilo ritmico (basti pensare al lavoro del basso e della chitarra elettrica…) ed erano caratterizzati da una voluta economia dei mezzi: strumentazione ridotta all’osso, impianti accordali semplici, riff elementari (ma potenti). Johnny Rotten e compagni scagliavano la loro violenza fonica contro una Gran Bretagna in crisi nera, economica e morale. Legati a una dimensione anarchica i Sex Pistols, con “Never mind the bollocks”, mandavano uno sberleffo allo sciocco in cima alla collina (Queen Elizabeth, tra tutti), attraverso una “estetica” allergica a ogni intervento espressivo “gradevole” e un uso della parola sarcastico e dissacrante [“Dio salvi la regina / Il regime fascista / Ti hanno reso un idiota / Potenziale bomba H / Dio salvi la regina / Non è un essere umano / Non c’è futuro / Nel sogno dell’Inghilterra” (God Save The Queen); “Io sono un Anticristo / Sono un anarchico / Non so quello che voglio ma so come ottenerlo” (Anarchy In The Uk); “Ti ho visto nello specchio quando la storia è iniziata / E mi sono innamorato di te, amo il tuo peccato mortale / Il tuo cervello è chiuso a chiave ma amo la tua compagnia / Ti lascio solo quando non hai più soldi / Non ho sentimenti per nessun altro / Devi capire bene / Sono innamorato di me stesso / Me Stesso / Il mio bellissimo me” (No Feelings)]. Testi che acquistavano ancora più senso grazie alla qualità fisica e icastica del canto di Rotten, esempio lampante di come una voce porti nel microcosmo di una canzone il corpo e la personalità dell’interprete e di quanto influiscano i suoi colori nella comunicazione canora. L’artista londinese non lavorava sulla correttezza del canto ma sulla sgradevolezza; una scelta, la sua, espressionistica e antigraziosa, nel tentativo, riuscito, di trasformare gli elementi di “sporcizia” formale in una sorta di “arte” vocale dell’eccesso.

“Anarchy In The Uk e God Save The Queen - ha scritto Andrea Silenzi - erano uno spaventoso schiaffo al ‘sogno inglese’ e ai dinosauri del progressive rock. I Pistols erano oltraggiosi e la loro musica era un virus pronto a distruggere le speranze di intere generazioni. Erano il punk, e dopo di loro niente è stato più come prima”.

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