L’infortunio non fu solo colpa del lavoratore. Semmai, l’errore umano fu possibile alla luce di carenze nelle misure di prevenzione di cui si sarebbero dovuti occupare il datore di lavoro e il committente. E’ la conclusione della consulenza tecnica d’ufficio disposta dalla Corte d’appello di Bologna, che 14 anni dopo il gravissimo incidente sul lavoro avvenuto all’interno dello stabilimento Marcegaglia di Ravenna, ribalta le valutazioni fatte nel corso del processo che finora aveva addossato tutte le colpe al lavoratore, un ragazzo all’epoca dei fatti 24enne.
Schiacciato tra le lamiere
L’incidente era avvenuto all’interno della Marcegaglia il 10 giugno del 2008. Schiacciato tra i blocchi di lastre di lamiera da 3.200 ciascuna, il giovane facchino era sopravvissuto per miracolo, pur rimettendoci un rene e riportando lesioni per 273 giorni di prognosi. Quel giorno erano le 18.30 circa quando aveva oltrepassato la linea pavimentale verde di sicurezza all’interno del capannone B2 adibito a deposito di lamiere. Dopo averne imbracato un pacco, aveva azionato la pulsantiera del carroponte comandandolo a distanza, restando tuttavia nello spazio di 60 centimetri che distanziava le lastre. L’oscillazione innescata, non gli aveva lasciato il tempo di scappare per evitare di rimanere schiacciato in mezzo ai blocchi. Ad ogni modo il ragazzo ne era uscito vivo; e nel raccontare la dinamica della tragedia sfiorata, aveva ammesso di avere commesso una leggerezza nel superare la linea di sicurezza che delimitava l’area. Quell’ammissione era valsa l’archiviazione del processo penale nei confronti dei vertici della Marcegaglia e della Rafar Multiservice (la cooperativa che aveva fornito il proprio operaio al colosso di via Baiona). Non solo, pure la causa civile non era andata bene in primo grado e in appello. Perché la disattenzione del lavoratore era stata sufficiente secondo il giudice ad escludere anche in sede civile ogni responsabilità datoriale, condannandolo a pagare il doppio del contributo unificato, oltre alle spese legali.
Colpo di scena in Cassazione
La battaglia del dipendente infortunato, assistito dagli avvocati Davide Baiocchi, Angelo Canarezza e dai legali dello studio Caricasulo, ha visto uno primo spiraglio un anno fa, quando i giudici romani hanno annullato la sentenza di secondo grado, rimandando la decisione a una nuova corte d’appello. Sottolineando la pericolosità delle mansioni svolte, i giudici hanno rimarcato che l’azienda non avrebbe adottato adeguate misure di sicurezza onde evitare infortuni legati all’imperizia, imprudenza o negligenza degli operai, e nemmeno vigilato affinché le precauzioni già presenti venissero rispettate. C’era materia, insomma, per una nuova consulenza. Cosa che il giudice della nuova corte d’appello di Bologna, Carlo Cocco, ha affidato all’ingegnere Raffaele Amato. Ed ecco qui la conclusione dello studio, che porterà alle battute finali il processo, nel quale anche l’Inail (rappresentata dai legali Andrea Rossi e Letizia Crippa) si è costituita a sua volta in giudizio per chiedere a datore di lavoro e committente la restituzione delle somme erogate dopo l’infortunio. Secondo l’esperto le «misure di prevenzione» che avrebbero dovuto «scongiurare il rischio connesso alla movimentazione delle lamiere.. sono apparse carenti relativamente alla formazione del lavoratore», che non aveva seguito corsi specifici sulle mansioni a lui affidate. «Migliorabili» invece «le procedure di lavoro e i sistemi di comando», che all’epoca erano pensili, dunque fissi e non radio. Inoltre, rimarca il consulente, sono state «disattese» le procedure che prevedevano la presenza di preposti e «la consegna dei manuali d’uso al lavoratore». Infine, mancavano «le indicazioni sull’utilizzo delle aree sicure».